Più che un’abitudine,
un vero linguaggio:
Pitrè, i siciliani
e l’arte del gesticolare

Paulo Coelho scrisse, una volta, che «ogni gesto di un essere umano è sacro e pregno di conseguenze». Una definizione, quella tratteggiata dallo scrittore brasiliano, certamente colma di liricità e che ben si attaglia alla natura del popolo siciliano, notoriamente dotato di un vastissimo campionario di espressioni non verbali. Dalle smorfie relative ai giochi con le carte fino alle classiche facce stizzite – con annessa mano tra i denti – delle mamme che rimproverano i figli un po’ troppo vivaci dopo l’ennesima marachella, sono numerosi questi veri e propri marchi di fabbrica che accompagnano il nostro vivere quotidiano e ci rendono riconoscibili agli occhi curiosi e ammirati degli stranieri. Rischieremmo di cadere in errore, tuttavia, se ci fermassimo a considerare tali movenze come semplici e colorite abitudini, o ancora come un reperto folkloristico. Il gesto, in Sicilia, è simbolo di un’arte che affonda le proprie radici in tempi antichissimi, e che, nel tempo, ha finito per costituire un linguaggio letterario e personalissimo, profondo ed essenziale nutrimento della nostra ricchissima produzione teatrale. Non a caso, già Giuseppe Pitrè, con la solita lungimiranza, ne aveva sottolineato l’importanza, dedicandovi alcuni dei pensieri più raffinati e sentiti della sua decennale ricerca.

All’interno della monumentale Biblioteca della tradizioni popolari siciliane, infatti, l’ultimo dei 25 volumi ha per titolo La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano. Una miniera di curiosità dal valore inestimabile, utile per ricostruire non soltanto l’eredità materiale e spirituale lasciataci in dote dall’alternanza delle storiche dominazioni, ma anche per riconsegnare alla memoria collettiva un bagaglio di esperienze e di costumi medianti i quali illuminare il nostro presente. E proprio a tal proposito, nel capitolo II, denominato Indole e carattere dei siciliani, Pitrè descrive così le nostre magiche doti espressive: «Dalla più lieve, impercettibile vibrazione dei muscoli della faccia a tutto un movimento del capo e delle mani, questo muto linguaggio esprime sentimenti, affetti, volontà, che sfuggono ai forestieri. Coi gesti si afferma e si nega, si comanda e si ubbidisce, si dispone e si esegue, si prega e si concede, si chiama e si risponde, si loda e si biasima, si carezza e si disprezza fino a comporre interi discorsi». Il riferimento alla sorpresa suscitata nell’animo dei forestieri, d’altra parte, è tutt’altro che peregrino. Nello stesso capitolo l’etnologo palermitano si diletta ad annotare uno dei tanti resoconti di viaggio redatti dai grandi signori europei giunti nell’isola – tappa obbligata dei mitici Grand Tour – nel corso del XVIII e XIX secolo. Una pagina divertente ed emblematica come poche: «Non sono pochi i viaggiatori nell’Isola che non ne siano rimasti meravigliati. Nel 1818 il conte Fedor de Karaczay notava non esservi cosa più piccante della mobilità del volto dei siciliani. “Un increspar di sopracciglia, una maniera di allungare il mento, di contrarre le narici, compongono – diceva – una conversazione animata con domande e risposte positive. Quando poi la parola riprende i suoi diritti, la pantomima è così incalzante, le dita diventano ausiliari così rapide che lo sguardo può seguirlo appena”». Come in ogni aspetto della propria esistenza, il siciliano mette in gioco tutto sé stesso, i suoi ardori e le sue passioni. Il linguaggio non fa eccezione.

Serve tutto il proprio corpo, ogni suo fremito, ogni sua intransigenza per restituire la pienezza del significato di ciò che vogliamo comunicare. Forse abituati dalla storia a gridare le nostre ragioni affinché qualcuno ci ascoltasse, forse estrinsecazione di un modo di intendere la vita votato all’espansività, forse, semplicemente, un ponte di cordialità verso i nostri interlocutori. Sta di fatto che la teatralità del gesto è connaturata alla nostra genetica, tanto da rappresentare un filo conduttore nella produzione dei nostri grandi autori. Dai gesti popolari e talvolta apotropaici dei personaggi verghiani a quelli stranianti delle figure pirandelliane, passando per le performance di giganti come Turi Ferro e Angelo Musco: la vita è un grande palcoscenico. E i siciliani, con le loro maschere tragicomiche, vi si muovono con inimitabile disinvoltura.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

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