«In diversi casi, nel riportare i fatti accaduti alla Columbia University, alcuni giornali mainstream non sono stati del tutto onesti. Molte situazioni sono state amplificate, ad esempio è stato scritto che gli studenti supportano Hamas, ma questo è stato negato in tutte le loro conferenze stampa». La platealità con la quale una parte del mondo studentesco universitario negli Stati Uniti ha manifestato il proprio supporto alla causa palestinese ha certamente destato scalpore, richiamando alla memoria le tensioni che travolsero i campus a stelle e strisce nel ‘68. Ancor più simbolico, se possibile, è il fatto che a fungere da epicentro delle manifestazioni anti-israeliane sia stata la città di New York, ovvero il centro finanziario e politico più rilevante dell’intero Occidente. Proprio lì, tra i corridoi roventi della Columbia, studia Francesca Maria Lorenzini, giornalista italiana e laureanda alla Graduate School of Journalism dell’ateneo americano, che in questi giorni convulsi ha vissuto in prima persona il crescere della contestazione e, in alcuni casi, il suo degenerare in atti violenti. A lei ci siamo affidati per ricostruire i fatti e per riflettere sul perché la questione riguarda direttamente anche chi si trova al di qua dell’Oceano. Ma anche per intravedere i possibili scenari futuri di questa mobilitazione d’altri tempi.

Francesca Maria Lorenzini

Come si è arrivati agli scontri dei giorni passati?
«Le manifestazioni studentesche sono state sospese verso la fine del semestre autunnale, quindi le proteste all’interno del campus sono state spostate al di fuori, finché la situazione non è esplosa due settimane fa quando varie organizzazioni studentesche come Jewish Voice for Peace e Justice for Palestine hanno deciso di allestire un accampamento, in un secondo momento smontato. Nel cortile c’erano dei professori che hanno sostenuto sia il motivo delle proteste che gli studenti: hanno comprato loro del cibo, da bere e fatto le nottate con loro. Controllavano che tutti stessero bene. Un secondo accampamento è stato allestito sull’altro lato del cortile ed è rimasto fino a qualche giorno fa, quando la polizia è venuta nuovamente per arrestare i manifestanti, che hanno occupato tutti gli uffici dell’università, compreso Hamilton Hall, già interessato dalle proteste del ‘68 contro la guerra in Vietnam. Coloro che sono riusciti ad entrare in questo edificio tra lunedì e martedì appartengono ad un gruppo che ha deciso di attuare questa misura dopo che i negoziati con l’università sono falliti».

«Il primo intervento delle forze dell’ordine non era necessario, ho dei video in cui riprendo gente che faceva yoga all’interno dell’accampamento. Per quanto riguarda l’escalation di Hamilton Hall, capisco le ragioni dell’Ateneo, ma la polizia statunitense è sempre molto violenta»

Quali sono i provvedimenti che l’università ha adottato nei confronti degli studenti manifestanti?
«Gli studenti che hanno manifestato alla Hamilton Hall sono stati o verranno espulsi. Per quanto riguarda la Columbia, è necessario fare un passo indietro: i negoziati sono falliti nella notte tra domenica 28 aprile e lunedì 29 e l’università ha stabilito che gli ultimi manifestanti avrebbero dovuto lasciare l’accampamento entro le 02:00 del pomeriggio. Il giro di sospensioni per chi non ha rispettato l’ultimatum è iniziato tra lunedì sera e martedì mattina. Alcuni studenti sono stati arrestati, ma poi rilasciati poco dopo».

© Francesca Maria Lorenzini
© Francesca Maria Lorenzini

Come giudica la decisione della Columbia di ricorrere all’intervento della polizia?
«Il primo intervento delle forze dell’ordine non era assolutamente necessario perché si è sempre trattato di proteste pacifiche, ho dei video in cui riprendo gente che fa yoga all’interno dell’accampamento. Credo che questo senso di pericolo sia stato un po’ ingigantito dalla stampa e dall’università. Per quanto riguarda l’escalation di Hamilton Hall, capisco le ragioni dell’ateneo: è stato occupato un edificio e sono stati rotti dei vetri e delle porte. Ma si tratta comunque di studenti, la polizia statunitense è sempre molto violenta, come è possibile constatare dai filmati che sono stati pubblicati su Instagram dagli occupanti».

Dato che gli studenti non stanno ottenendo grandi risultati, stanno forse considerando di cambiare approccio?
«Diciamo che in questo momento la loro tattica è quella dell’escalation, dato che all’inizio si è cercato di trovare un punto d’incontro con l’Università. Alcune delle loro pretese sono piuttosto irrealistiche: chiedono un’interruzione dei rapporti con Israele, ma con un’istituzione internazionale come la Columbia è molto più difficile da ottenere, come del resto lo è per qualsiasi grande azienda».

«Negli USA molti under 35 tendono a sostenere la Palestina, questo è dovuto anche al fatto che il Paese è oggi molto meno bianco e più multietnico di quanto non lo fosse 20 anni fa»

Voi studenti di giornalismo nel raccontare i fatti come vi siete comportati?
«Chiaramente, rispetto ai giornalisti esterni, abbiamo avuto un punto di vista privilegiato, è stato più facile avere delle interviste con i manifestanti. D’altro canto,  per loro è stato più facile fidarsi di noi che non di giornalisti esterni. Ciascuno di noi ha pubblicato su testate diverse, nel mio caso ho realizzato i servizi per City Newsroom».

© Francesca Maria Lorenzini
© Francesca Maria Lorenzini

Sebbene la questione palestinese esista da decenni, in Occidente prima del 7 ottobre sembravamo quasi essercene dimenticati. Oggi, in varie parti del mondo si stanno verificando eventi come manifestazioni e occupazioni nelle università. Cosa ci dice quella avvenuta alla Columbia dell’evoluzione dell’opinione pubblica negli Stati Uniti?
«Per molto tempo, la posizione pro Israele di gran parte degli americani ha fatto sì che mai si verificassero proteste a favore dei palestinesi. Non va dimenticato, del resto, che gli USA sono i principali finanziatori dello stato israeliano. Oggi, stiamo appurando che gli Stati Uniti stanno andando incontro ad un cambio generazionale: gli under 35 tendono a sostenere la Palestina, e questo secondo me è anche dovuto al fatto che il Paese è oggi molto meno bianco e più multietnico di quanto non lo fosse 20 anni fa. Gli studenti dell’accampamento hanno parlato di questo durante una delle loro assemblee: la Columbia è un’istituzione per lo più bianca, tuttavia gli studenti manifestanti sono per lo più figli di immigrati di origine araba. Poi chiaramente, il fatto che le occupazioni siano avvenute a New York, che è un po’ il centro mediatico mondiale, ha fatto sì che queste facessero il giro del mondo». 

*studentessa del corso di Storia e Tecniche del Giornalismo al dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania

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