«Questo dualismo mi accompagna sin da ragazzino. Ero adolescente quando ho iniziato gli studi al Conservatorio di Cagliari contemporaneamente a quelli ordinari, la scuola media prima e il liceo poi». Ancora oggi, Gianluigi Dettori quasi si meraviglia di essere riuscito a portare a compimento, con dedizione, le sue due carriere: quella di magistrato e l’altra da direttore d’orchestra. «Credo che dipenda molto dalla passione che ho messo in entrambi i campi. Inoltre il conservatorio con la sua costante richiesta di applicazione mi ha abituato, come direbbe Leopardi, allo studio matto e disperato». Un equilibrio perfetto, in un cui raramente le due vie parallele si sono sfiorate. «Qualche anno fa ho diretto l’Orchestra Sinfonica di Sanremo per l’anniversario di Falcone e Borsellino – racconta – ma oggi sono commosso del mio coinvolgimento per la prima dell’opera del M° Musumeci dedicata al giudice Livatino». Dietro al titolo del dramma lirico, “Sub tutela Dei. Per il giudice Livatino”, che domenica pomeriggio verrà eseguito in forma di oratorio nella sala del Sada per poi essere trasmesso il 2 giugno su Sky Classica HD, si cela una frase che il magistrato di Canicattì era solito apporre a margine dei suoi appunti, quasi a voler testimoniare che dietro al suo operato ci fosse una mano divina.

MARTIRE DI GIUSTIZIA E FEDE. Il 9 maggio nella cattedrale di Agrigento, avrà luogola beatificazione del “giudice ragazzino”, una data simbolo perché in quello stesso giorno di ventotto anni fa papa Giovanni Paolo II pronunciò parole durissime contro la mafia che aveva trucidato Livatino, definendo quest’ultimo “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Parole ripetute poi con forza da papa Francesco che ne ha riconosciuto il martirio in odium fidei. Per celebrare in musica la profonda fede di questo grande uomo, il direttore artistico del Teatro Massimo Bellini di Catania, Fabrizio Maria Carminati, ha affidato la stesura del dramma al compositore catanese Matteo Musumeci, già noto per essere autore d’intense pagine dedicate alla patrona della città, e al giurista Vincenzo Vitale che ne ha curato il libretto. «Sono molto emozionato di salire per la prima volta sul podio di un teatro di grande tradizione e prestigio come il Bellini, che vanta un’orchestra strepitosa – sottolinea Dettori – anche se questa volta il portato emotivo sarà superiore a quello di un normale concerto perché celebriamo un collega che ha asservito il diritto a un ragionamento di giustizia con la “g” maiuscola, divenendo un filosofo del diritto. Quando Livatino fu ucciso il 21 settembre del 1990, io iniziavo gli studi in giurisprudenza. Credo che dal punto di vista della magistratura io sia il prodotto di quelle grandi stragi». Una stagione, quella a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in cui morirono molti servitori dello Stato, in prima linea nella lotta contro la mafia. Quel giorno di fine estate, al Tribunale di Agrigento, Rosario Livatino avrebbe dovuto decidere la sorte di 15 capiclan. Non arriverà mai a destinazione. Dopo aver speronato la sua Ford Fiesta Amaranto, gli Stiddari lo finiranno a colpi di pistola.

Il Maestro Gianluigi Dettori

MUSICA E LEGALITÀ. «Come sempre, quando mi approccio a un’opera – osserva il direttore d’orchestra – parto dallo studio del testo. Vincenzo Vitale ha ricostruito la psicologia dei quattro personaggi in maniera veramente pregevole, soprattutto per il dramma interiore vissuto dal magistrato donna». Protagonisti dell’opera, scritta in appena due mesi, sono due coppie: la prima composta dal mezzosoprano Anastasia Boldyreva, che interpreta il primo giudice insieme al tenore Ivan Ayon Rivas, che veste i panni di Livatino e la seconda, costituita dal baritono Franco Vassallo e dal soprano Francesca Dotto, rispettivamente il primo e il secondo imputato. «Il personaggio della Boldyreva è un giudice donna vincolata a una legalità sterile, – spiega – esageratamente severa e spesso ingiusta. Una visione distorta che verrà redenta da Livatino, proprio come accadrà con l’imputata». Il libretto, più che raccontare la vita del giudice canicattinese, rappresenta piuttosto una testimonianza esistenziale, non solo della legalità ma in particolare della giustizia. «Frasi di grande spessore che utilizzano allitterazioni, assonanze come “giudice che giudicando non giudicava”, una delle mie preferite – evidenzia – e che vengono valorizzate dalla musica. Nell’esposizione del carattere del primo giudice rispetto a Livatino si passa da un approccio ritmico a uno melodico e lirico. Non mancano citazioni dotte, ci sono passaggi in cui sembra di sentire la “Turandot” di Puccini. Si tratta davvero di un’opera di grande valore che arriva dritta all’ascoltatore». Viste le attuali limitazioni, il dramma lirico verrà eseguito a porte chiuse, mentre il Coro sarà sostituito dalla voce narrante di Massimo Popolizio, al quale è affidato il prologo. «Sebbene non sia presente fisicamente, sono abbastanza sicuro che il pubblico parteciperà a quest’evento con grande attenzione. L’arte a mio parere non può essere mero intrattenimento ma ha una funzione di stimolo e di miglioramento culturale, ecco perché attribuisco a quest’opera un grande significato di partecipazione sociale».

EDUCARE I GIOVANI. Un messaggio principalmente rivolto alle giovani generazioni, che forse poco conoscono i fatti luttuosi che hanno segnato profondamente la storia recente del nostro Paese. «Teatri così illuminati dal punto di vista della programmazione sono veramente pochi in Italia. È facile puntare su titoli graditi al pubblico senza mai esporsi. Certo, in operazioni di questo genere il rischio di incorrere in un fallimento è alto, ma lo sviluppo culturale e musicale deve passare anche attraverso scelte che possono apparire ardite, altrimenti ci si fossilizza». Al Teatro catanese va riconosciuto il fatto di non aver avuto mai paura di correre questo pericolo, aprendo spesso alla vena creativa di compositori contemporanei figli dell’Etna. «Nella funzione pubblica dell’arte deve rientrare anche la sensibilizzazione dei giovani, soprattutto rispetto a certe tematiche. Alla fine se ci pensiamo è quello che ha sempre fatto il grande melodramma italiano, denunciando o quanto meno ridicolizzando certi comportamenti. Solo attraverso la riflessione possiamo rendere attuale l’opera».

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