Un mito a cui i siciliani non hanno mai creduto: così la letteratura ha sgretolato il mito di Garibaldi

Esiste un momento, nella vita di ogni curioso lettore che non si accontenta delle verità di comodo, in cui la storia – quella tramandata da un certo genere di scuola in maniera quasi dogmatica – mostra il suo lato oscuro. Le sue falle, le sue contraddizioni, le sue chirurgiche omissioni. Cresciute con miti imperituri, epopee e certezze granitiche, sempre più spesso le generazioni contemporanee hanno imparato che dietro le quinte del passato, dei grandi eventi collettivi e delle imprese individuali, si cela una complessità con cui, talvolta, è difficile fare i conti. È il caso, ad esempio, delle frequenti mistificazioni sul Medioevo, periodo buio per eccellenza sovente sminuito a vantaggio del Rinascimento, che, tuttavia, a dispetto della fioritura artistica senza precedenti, non si distinse certo per la mancanza di episodi di sanguinaria intolleranza (basti pensare a Savonarola o alla cacciata degli Ebrei di Spagna). E che dire dell’idea condivisa a proposito delle presunte condizioni economiche disastrate del Regno delle Due Sicilie in epoca risorgimentale, sebbene sempre più studiosi sostengano che il declino sia cominciato con l’intromissione piemontese nella politica locale? E proprio al periodo unitario risale una delle questioni storiografiche di scottante attualità, vale a dire il giudizio sulla figura di Garibaldi, decaduto pilastro della nostra storia dopo essere stato a lungo esaltato come “eroe dei due mondi” e padre spirituale dell’agognata riunificazione italiana. Una questione piuttosto sentita dai siciliani, se è vero che da tempo, specialmente attraverso la letteratura, si sono impegnati a tratteggiarne un efficace controritratto. Oggi, anche per merito di questa feroce volontà isolana di puntualizzazione, le ombre e le dissonanze di quella spedizione sembrano un dato acquisito: ma quand’è che questa consapevolezza ha mosso i primi passi?

Benché d’istinto saremmo portati a vedere nella novella verghiana Libertà (1883) la capostipite di tale movimento revisionista, grazie alle ricerche sempre certosine e dirompenti di Leonardo Sciascia sappiamo che già all’indomani dell’Unità un intellettuale siciliano, in un clima di generale approvazione e santificazione delle imprese dei Mille, aveva osato levarsi contro quel coro unanime. Si trattava di tale padre Giuseppe Buttà, al quale lo scrittore di Racalmuto, intervenendo sul giornale L’Ora, rendeva merito nel 1965: «Dopo aver letto le ottocento pagine del suo libro (Da Boccadifalco a Gaeta, ndr), debbo confessare che questo padre Buttà mi piace. Non per la causa, peraltro anche allora irrimediabilmente non giusta e persa di più, ma per l’ardore e il coraggio con cui la difende. Nel 1875, nell’Italia unita, nell’Italia che ha già i suoi intoccabili miti dell’unità, padre Buttà ha il coraggio di dire male di Garibaldi, di smontarne il mito». Su questa stessa scia, del resto, i nostri giganteschi letterati avevano aspramente criticato, quando non deriso, gli ideali rivoluzionari che Garibaldi, più o meno fittiziamente, si era intestato. Al generale nativo di Nizza, infatti, furono inviati eloquenti strali dal Pirandello patriottico della novella Le medaglie (1904), dal Vincenzo Consolo che ripercorre le sommarie esecuzioni dei contadini di Alcara Li Fusi in Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), dal capolavoro di Tomasi di Lampedusa (1958). A chi si riferiva, d’altro canto, il Principe di Salina, se non a quel discutibile “pacificatore” giunto nell’isola per ottenere l’annessione dell’isola, nel pronunciare il motto immortale “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”? Una condanna senza appello, insomma. Una battaglia che i siciliani, colpiti dalle nefandezze che Sciascia definì «scheletri nell’armadio di cui non bisognava parlare», hanno da sempre combattuto in prima linea.

Lo stesso Sciascia che, interrogato direttamente sul tema, in diretta televisiva Rai nella trasmissione intitolata significativamente “Serata Garibaldi” del 1982, ebbe a dire, chiosando in maniera a dir poco perfetta: «Garibaldi venne in Sicilia con il proposito di non cambiare nulla. Di annettere il Regno delle due Sicilie a quello sabaudo. E basta. Non voleva essere disturbato da movimenti rivoluzionari. Non ci fu una promessa vera e propria di redistribuzione delle terre e di riforma agraria. Ma quando si parlava di libertà, per i contadini di Bronte si intendeva libertà dal bisogno. E il loro era un doppio bisogno, vessati com’erano non solo dall’antico feudalesimo, ma anche da quello che apparteneva agli inglesi. Fu questo a rendere ancor più cruda la reazione di Bixio: la volontà di non voler disturbare gli interessi degli inglesi. Vorrei che su Garibaldi non ci fosse tanto garibaldinismo, che mette in castigo i suoi detrattori e in Paradiso i suoi amici». Difficile pensare ad una chiusura del cerchio più sintetica ed incisiva per un secolo siciliano di lotta alle versioni ufficiali. Sarebbe il caso, forse, di ricorrere al sempreverde “ai posteri l’ardua sentenza”. Se non fosse che i posteri si sono già chiaramente espressi.

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Giornalista, laureato in Lettere all'Università di Catania. Al Sicilian Post cura la rubrica domenicale "Sicilitudine", che affronta con prospettive inedite e laterali la letteratura siciliana. Fin da giovanissimo ha pubblicato sulle pagine di Cultura del quotidiano "La Sicilia" di Catania.

1 Comment

  • Claudio
    3 anni ago

    È bello contestare e denigrare Garibaldi; ma quando faranno un esame critico su come è iniziata la mafia e chi sono stati i fiancheggiatori fino ai giorni nostri? E perché non si riesce a scardinare?

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