Fa rima con Topolinia, ma nelle intenzioni non doveva essere una città di fantasia. Tutt’altro. A popolarla, non sarebbero stati topolini, ma giovani agricoltori balilla. Era un «progetto completo e romanamente grande, dalla spesa illimitata» al quale l’architetto Saverio Fragapane, allievo di Ernesto Basile e vicino a Don Luigi Sturzo, fu invitato a partecipare alla metà del 1923. Doveva realizzare in pompa magna una nuova città: Mussolinia, il nome. In onore del Duce. Un progetto al quale Mussolini, raccontano gli storici, teneva molto, proprio perché portava il suo nome. Ma dal quale ebbe solo amare delusioni. Mussolinia diventerà la Topolinia del Ventennio, una città fittizia. Se quella di Walt Disney è piena di allegria e divertimento, il sogno del regime naufragò tra sberleffi e polemiche.

Mussolinia doveva sorgere nel bosco di Santo Pietro, tra Caltagirone e Acate. Sulla carta era una vera e propria città giardino per mille famiglie, con al centro una grande piazza circolare interamente sormontata da un porticato e da sedici torri a cupola, da cui si sarebbero dipartite a raggiera sette strade. Fu anche posta una prima pietra nel corso di una cerimonia che si trasformò in una grande comica, come raccontano Leonardo Sciascia in La corda pazza e Andrea Camilleri in Privo di titolo.

Scrive Sciascia: «“La nuova città giardino”, dice il giornale, “Apparve al Presidente ed al numeroso seguito tutta inondata di sole tricolore”. Non che la città ci fosse: in quella vasta pianura fitta di querce e di ulivi (ottantamila alberi d’ulivo, e più erano le querce), soltanto si levavano due delle sedici torri che dovevano sorgere intorno alla piazza centrale, a punteggiare un colonnato circolare».

Quando al Duce fu porto il tubo metallico contenente la pergamena che doveva prima firmare e poi murare dentro la prima pietra, si scoprì che era vuoto. Seguirono istanti di frenetica quanto inutile ricerca. Quindi Mussolini, visibilmente innervosito, strappò un foglio dal primo registro che gli capitò sottomano e gli scrisse sopra due righe: «Qui a Mussolinia sorge la Casa del Fascio, solida e quadrata come la fede e la tenacia degli Italiani. Nell’anno II (1924) dell’Era Fascista. Mussolini». Infilò poi velocemente il foglio nella pietra, e ripartì per Ragusa. La città era fondata.

All’incidente seguirono poi altre gaffe, truffe e dissidi. Che non fecero mai decollare il progetto. E a Mussolini, che chiedeva costantemente notizie sull’avanzamento dei lavori nella “sua città”, venivano inviati fotomontaggi di edifici e schiere di villette edificati altrove e spacciati per scorci della nuova città-giardino. Finché la verità non venne a galla e il Fascio di Caltagirone fu sciolto. Da allora, Mussolini impose che non si parlasse più di Mussolinia. «E chissà, se tra qualche secolo, imbattendosi nel fascicolo dedicato a Caltagirone dalla casa Sonzogno, un archeologo non si darà a scavare nel bosco di Santo Pietro, alla ricerca della città-giardino», conclude ironicamente Sciascia nel capitolo “Fondazione di una città” in La corda pazza.

Oggi dove sarebbe dovuta sorgere Mussolinia c’è un desolato borgo rurale di 50 abitanti. In quella che doveva essere la grande piazza XXX ottobre non resta nemmeno quel poco edificato perché buttato giù dalla bombe americane del 1943 e poi demolito negli anni Cinquanta. Sopravvivono la chiesa di Pietro e Paolo e alcuni caseggiati con tipici porticati d’epoca. Dietro alla piazza sorge il Centro Sperimentale per la Granocoltura, portato a compimento nel 1927, sempre in epoca fascista ma quando ormai il progetto di Mussolinia era già stato abbandonato. Di fronte alla chiesa è il punto in cui sarebbe sorta la Casa del Fascio e dove Mussolini murò quella pergamena improvvisata. Sulla sinistra l’unico edificio ad archi ancora in piedi (allungato con un’ala più moderna dopo la guerra).

In epoca più recente si è tentato di dare una storia al borgo creando un museo di Mussolinia, che risulta “temporaneamente chiuso” da diverso tempo. Come il Museo naturalistico dirimpettaio del bosco attrezzato per le domeniche “arrusti e mangia”. L’area verde dovrebbe essere “plastic free”, come recitano alcuni cartelli, la realtà è, purtroppo, diversa.

Pochissimi oggi intraprendono un viaggio fino a Santo Pietro alla ricerca di Mussolinia. La storia della città del Duce sarebbe ormai sepolta e dimenticata nel passato, come la prima pietra posta dallo stesso dittatore, se non fosse per la cucina casalinga della Trattoria Antichi Sapori Mediterranei, al cui richiamo sono ormai in molti a non poter resistere. Si mangia su tavolini ben distanziati all’interno di un boschetto privato. Alla base della cucina sono le verdure raccolte la mattina nell’orto dai proprietari che preparano le pietanze. Una lunga degustazione di antipasti siciliani, abbondanti e gustosi: minestra di ceci, caponata, peperoni arrosto, ricotta, formaggi, varie marmellate fatte in casa, parmigiana, crastoni, tenerumi, tabulé di verdure, sottaceti, pizza, arancini, panelle, crocchette di patate, insalata di arance. E poi pasta col macco, tagliatelle al sugo di maiale e salsiccia alla brace. Pane e dolci (di ricotta e cioccolato) fatti in casa. Prenotazione e “doggy bag” anti-spreco sono d’obbligo. Si pranza solo la domenica (in estate si cena solo nel weekend) in un ambiente molto accogliente e familiare, con il signor Antonio e la figlia che s’intrattengono con i clienti. Prezzi sconvolgenti: 20 euro a testa.

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