Vittima dei trafficanti,
in Italia non per scelta.
«Ma qui posso dire Pace»
Sedici anni, il sogno di diventare giornalista, un viaggio al Nord per studiare, cercare un lavoro ed essere indipendente. Una storia come tante, se non fosse che per Mohammed, originario della Guinea, “il Nord” è l’Algeria, dove non arriverà mai a causa dei trafficanti di esseri umani. Mai avrebbe immaginato di trovarsi oggi in Europa, ospite a Catania dell’associazione “Insieme Onlus”. E nonostante le violenze subite e un viaggio nel quale ha rischiato di morire annegato, oggi guarda con speranza al futuro
Una felpa nera, uno sguardo basso quando emergono i ricordi, quelli che bruciano, quelli che fanno male e parlano di un viaggio. Un viaggio non voluto e una ferita alla testa che racconta tutto l’inferno libico.
Questa è la storia di Mohammed, 18 anni, originario della Guinea, arrivato in Sicilia due anni fa dopo aver affrontato un lungo viaggio nel Mediterraneo. Ma il mare non è sempre amico e su quelle acque Mohammed vive tutto il suo dramma: il barcone affonda e lui rischia di morire annegato. Mentre racconta la sua storia indossa una felpa con scritto “Live, fight”. Vivi, combatti. Perché questa vita, salvata dalla Guardia Costiera spagnola, Mohammed la vuole vivere davvero. Nonostante un destino beffardo e una circostanza fortuita che gli ha cambiato la vita: Mohammed arriva, infatti, nel Mediterraneo non per scelta ma dopo essere stato defraudato dai trafficanti libici.
«A 16 anni la mia vita cambia – dichiara Mohammed -. Al ritorno dal mio viaggio dalla Costa D’Avorio, dove vive mio padre, ex giornalista in esilio, incontro un vecchio amico che rende allettante l’idea di lavorare in Algeria per un breve periodo. Da lì a poco avrei ricominciato la scuola in Guinea ma l’idea di programmare il mio futuro con pochi soldi in tasca mi terrorizzava. Volevo studiare e realizzare i miei sogni, così senza pensarci troppo accetto la proposta».
Ci sono numeri, neanche a dirlo, che raccontano la traversata dei migranti tra sbarchi e naufragi. Ma dietro questi numeri ci sono storie di persone che portano con sé tutti i segni della fase prima del viaggio in mare meno conosciuta dalle cronache quotidiane. Su quel percorso i migranti sono esposti a violenze e la via nel deserto è descritta come un incubo: assenza di cibo e acqua, giovani lasciati morire senza pietà o costretti a fare i lavori più disparati per pagare l’altra fase del viaggio. Ma il culmine dell’inferno è la Libia. Qui i giovani vengono torturati dai trafficanti, dalle milizie e dalla Guardia Costiera del Paese africano. Alcuni sono rinchiusi in veri e propri lager, frustati e ripresi con un video da inviare alle famiglie per obbligarle a pagare un riscatto.
Anche Mohammed cambia rotta, giunge in Libia ed è costretto a pagare i trafficanti. Disperato e senza più soldi lavora come giardiniere in una famiglia araba fino a quando il proprietario di casa, dopo una diatriba, lo ferisce in testa e lo getta in un barcone. Ricostruire i ruoli delle persone incontrate non è facile. Sembrerebbe, infatti, che la famiglia araba abbia venduto il giovane ai trafficanti.
«Non avevo idea di cosa mi stesse succedendo – aggiunge –. Il sangue mi colava dalla testa e tremavo dalla paura. Ricordo che il barcone si spezza in due e l’acqua mi travolge. Stavo per morire». Salvato dalla Guardia Costiera spagnola approda nel porto di Catania e viene trasferito in un Centro di prima accoglienza a Messina dove fugge qualche giorno dopo. Con la ferita in testa ancora aperta e il terrore negli occhi arriva a Catania dove incontra l’associazione “Insieme Onlus” di Giuseppe Messina, che da tempo accoglie persone senza fissa dimora, anziani e giovani migranti.
«Da quando sono in Italia – dichiara il giovane – sono cambiato, lavoro nel ristorante solidale dell’associazione e svolgo attività di volontariato che mi permette non soltanto di fare del bene ma di integrarmi con il tessuto sociale. In comunità ho trovato una famiglia».
Oggi Mohammed parla italiano e non ha smesso di credere nei suoi sogni. Vuole studiare in Francia per diventare giornalista come il papà. «L’unica arma di mio padre era una penna, anche io vorrei intraprendere la stessa strada per raccontare le contraddizioni del mio Paese, le guerre e il viaggio disperato dei migranti che fuggono per un futuro migliore. La parola più bella in italiano che ho appreso negli ultimi mesi? Sicuramente pace, una condizione che tutti i popoli, indipendentemente dalla razza o colore della pelle, dovrebbero vivere nel proprio Paese», conclude Mohammed.
Proponiamo ai nostri lettori uno degli articoli prodotti all’interno delle attività laboratoriali del workshop “Raccontare la Sicilia. Raccontare il Mediterraneo”, organizzato dal Sicilian Post e dalla Fondazione DSe presso la Scuola Superiore di Catania il 27-30 settembre scorsi. Durante i quattro giorni di svolgimento del corso sono stati ospiti direttori di giornali, caporedattori ed esperti di rilevanza internazionale. Tra questi: Derrick De Kerckhove e Maria Pia Rossignaud (Osservatorio TuttiMedia e Media Duemila), Antonello Piraneo (La Sicilia) e Domenico Ciancio Sanfilippo (Fondazione DSe), Giovanni Zagni (Pagella Politica), Guido Tiberga e Domenico Quirico (La Stampa), Giorgio Paolucci (Avvenire).