Resa celebre dai romanzi di Camilleri, la parola, in origine, sembra avere tutt’altro significato, dal momento che stava ad indicare un tubero commestibile simile alle ghiande. Il motivo dello slittamento di senso? Probabilmente la sua forma…

Chi ha una certa familiarità con il siciliano, o anche solo con i celeberrimi libri di Camilleri, avrà sentito almeno una volta nella vita l’espressione: nun ci rùmpiri i cabassìsi, traducibile in una formula neutra in italiano con non rompere le scatole, sebbene sia facile intuire che nel dialetto della Sicilia occidentale la frase ha una sfumatura più colorita. I cabassìsi (o cabasìsi), però, non nascono come parolaccia che stia ad indicare gli organi genitali maschili, anzi.

La loro origine è da fare risalire al termine cabbasisa, che deriverebbe dalla forma in lingua araba ḥabb ‘azīz (حَبّ عَزيز), poi per agglutinamento divenuta habb`azīz, cabb`azīz, cabbazīs e, infine, cabbasisa. La voce avrebbe significato all’epoca “bacca rinomata” e, nel 1300, ne parlò anche Leone Africano, definendo questo cibo “un frutto di grossezza come un radicchio, ma piccolo come fave, il qual succiano, ed è dolce come mandorle e si usa in tutto il regno di Tunis”. Nello specifico, si trattava del Cyperus esculentus, una pianta originaria dell’Africa che mette dei piccoli tuberi ovali, dal sapore simile a quello delle noci o delle mandorle amare.

Nell’italiano dei nostri giorni è conosciuto come cipero o zigolo dolce, e si tratta di un tubero che a Pantelleria per antonomasia è stato associato alle ghiande, dopodiché, da qui, alle famigerate “parti intime” dell’uomo. Una parola non troppo diversa esisterebbe in dialetto veneziano, in cui i bagigi sono tanto le bacche quanto le noccioline americane, e per non andare troppo lontano anche nella Sicilia nord-orientale è attestato il sostantivo babbagigi, come d’altronde lo è anche in italiano.

Livàrisi dai cabbasìsi, quindi, ovvero togliersi di torno e smetterla di dare fastidio, è un sintagma dopotutto comprensibile al primo ascolto, per quanto curioso e poco noto nella sua etimologia. Incluso anche nella canzone A Vucciria, del compianto cantautore palermitano Massimo Melodia, è ormai un vero e proprio segno linguistico distintivo dell’isola, oltre che un tubero ancora usato per insaporire alcuni piatti della cucina mediterranea.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email