Questo mese mi è capitata una cosa insolita con un autore altrettanto insolito. Con un autore che da anni pensavo di rileggere, dato che l’ho considerato a lungo il mio preferito, o forse quello che più mi aveva segnato quando avevo iniziato ad avvicinarmi alla letteratura contemporanea italiana.

Mi è toccato rispolverarlo per delle ragioni che non sono dipese da me, il che peraltro è insolito a ben pensarci, no? Non capita quasi mai, da adulti, con i libri. In qualche modo sono loro a cercarci o noi a sceglierli e a scovarli, invece in questo caso lui è tornato in libreria senza che nemmeno lo sapessi, ho bucato la notizia non so come, e mi sono ritrovata ad averlo fra le mani all’improvviso, totalmente impreparata.

E la cosa più insolita non è nemmeno questa, comunque. È che l’ultima volta che avevo preso fra le mani un testo di Alessandro Barico stavo attraversando una fase dell’esistenza di passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza: un momento in cui scoppiavo di vita, di creatività, di ideali, di sentimenti. In cui ero a briglia sciolta nel mondo e stavo cercando di non morire di crepacuore per l’emozione.

Adesso, nel ricordarmi di quegli anni, mi accorgo che sto nuovamente superando uno step per raggiungerne un altro, stavolta probabilmente dalla (post)adolescenza all’età (pre)adulta. Con gli stessi desideri, con le stesse intenzioni, con una ricerca di joie de vivre che non solo non è cambiata di una virgola, ma che anzi il suo Abel, arrivato sugli scaffali grazie a Feltrinelli, sta assecondando con la stessa potenza.

Non mi era mai successo con nessun autore di pensare che l’esistenza e la letteratura fossero veramente influenzabili a vicenda, che il corso degli eventi potesse cambiare grazie a un romanzo e viceversa. E invece, impelagata fra le stesse pagine, ne ho avuto ancora una volta la prova. Con una sorpresa, un’emozione e una fiducia indescrivibili, pur nel perenne e labirintico casino che è il nostro percorso personale.

Perché Abel è la storia di un ragazzo fuori dal comune, fuori perfino dal mondo, che vive in una dimensione immaginaria simile al Far West, in cui tutto è troppo rarefatto per soddisfarlo: l’amore sfuggente di Hallelujah Wood, sua madre che l’ha abbandonato quando era bambino e perfino la realtà quotidiana, con le sue assurdità, le sue complicazioni, le sue tenerezze.

Abel ha un nome biblico e un destino altrettanto eroico, quantomeno finché gli eventi non lo prendono in contropiede, e la sua personale avventura prende una piega da cui io stessa, che ho solo un anno anagrafico più di lui, mi sono lasciata trascinare e accarezzare, divorare e meravigliare, con la consapevolezza di riuscire a imparare qualcosa di nuovo sull’esistenza, su di me, sulla letteratura.

Anche perché, lo scrive pure Baricco, di tutta la vita che viviamo e che vivremo «si incontra il racconto, in attimi speciali, sulla propria strada. È sbagliato aspettarsi qualcosa di lineare, come istintivamente si sarebbe portati a fare. Più facilmente, il racconto di quello che sei stato e che sarai ti viene incontro come una pelle chiazzata di bagliori, pozzanghere lasciate indietro da un uragano in fuga. Vi si specchia il cielo».

Ora. Ci sono segna-libri che fungono da specchio, che sortiscono questo effetto quasi mistico, rivelatore, e Abel – come gran parte la produzione di Baricco, che io lo volessi o meno – per me ha funzionato così. Però, anche ammesso che magari per voi sia diverso, facciamo che la sfida sia adesso pubblicarvi un libro, uno qualunque, per il quale questo meccanismo si possa applicare e dire: «Ecco, l’ho trovato anch’io questo segna-libro, ed era proprio una pelle chiazzata, una pozzanghera, un bagliore che valeva la pena arrivasse fino a me».

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email