Dell’incidente di Vermicino che nel 1981 vide il piccolo Alfredo morire nel pozzo in cui era caduto per sbaglio, mia nonna quest’anno mi aveva parlato già due volte. Nella sua memoria è rimasto impresso tutto, al punto che mi aveva sconvolta pensare, specie considerando l’età che ha, quanti dettagli di un dramma altrui sia sempre riuscita a conservare dentro di sé. Come se fossero pezzi della sua identità, o comunque della collettività di cui si sente parte.

Poi ho letto Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia di Enrico Macioci, romanzo che pur nella finzione letteraria ruota intorno a questo episodio, e che è stato pubblicato di recente da TerraRossa Edizioni – e ho capito come mai certe ferite siano sempre rimaste aperte nella memoria del nostro Paese. Probabilmente, per tante generazioni, sono stati traumi paragonabili a quello più recente del delitto di Cogne, che nella mia mente è rimasto impresso insieme al plastico ricostruito da Bruno Vespa e tutto il resto. O come quello di Denise Pipitone, di cui ancora si cercano le tracce. O ancora come l’omicidio, non meno atroce, di Yara Gambirasio.

Fino a poco tempo fa per me si trattava di storie troppo respingenti. Storie che la televisione distorceva, esacerbava, allargava a dismisura finché i loro contorni non avevano più labbra, ma solo linee di confine sottilissime fra la curiosità morbosa e la mancanza di privacy, di empatia, di servizio pubblico realmente utile a qualcuno. Storie per cui, di conseguenza, non ero mai riuscita a commuovermi fino in fondo.

La copertina del romanzo

Poi, dicevo, ho letto Sfondate la porta ed entrate nella stanza buia di Enrico Macioci. E finalmente sono riuscita a osservare da un’altra prospettiva la tragedia di un bambino che non ho mai conosciuto, di cui non ho mai sentito parlare neanche al telegiornale, e che però rivendica un’umanità e un’attualità impossibili da ignorare.

Se si ascolta parlare il protagonista, il piccolo Francesco che da personaggio di fantasia diventa portavoce di una tremenda realtà, si capisce infatti quale sgomento possa investire in prima persona chi conosceva la vittima di un episodio del genere, e deve ora fare i conti con la sua assenza. Solo così, come suggerisce il titolo, si può sfondare una porta lasciata socchiusa dai mass media ed entrare in una stanza buia, nella quale il chiasso dei giornalisti è sostituito da un dolore incomprensibile a un occhio esterno.

O meglio: se bisognasse “solo” provare a capire il dolore di una perdita, magari immedesimarsi in chi voleva bene ad Alfredino sarebbe possibile. Ci sarei riuscita perfino io, con Denise e con Yara, anche se solo un pizzico, di sbieco, sommariamente. Il punto è che, al di là della sofferenza “momentanea”, alle persone più vicine alla vittima tocca affrontare personalmente un’intera vita. Avranno scelte quotidiane da prendere, bivi da superare, emozioni da elaborare. Il che le porta spesso sull’orlo di un vuoto tridimensionale, cosmico, nel quale più si continua a tenere fisso lo sguardo e più si rischia che, come scriveva Nietzsche, l’abisso stesso sia pronto a guardare dentro di noi.

Ecco, io una consapevolezza simile non ero riuscita ad acquisirla per molti anni. Mi tenevo lontana emotivamente da certi casi di cronaca nera, finché il confronto con mia nonna prima e il libro di Macioci poi mi hanno spinta a pormi nuove domande e a cercare delle risposte. Perché, fra i suoi tanti obiettivi, la letteratura ha anche quello di aiutarci a lottare contro la superficialità e la disumanizzazione, proponendoci narrazioni del mondo di cui spesso senza saperlo sentiamo la mancanza.

Per me, quantomeno, è stato così. E dopo avere avuto accesso a uno shock di questa portata ho l’impressione che mi servano altri libri, altre storie, altri riscontri. Per capire meglio anche il presente, e sfregare due gocce di disinfettante su tutte le ferite che sono ancora aperte.

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