Alle origini di un modo di essere: chi ha inventato la parola Sicilitudine?
L’abbiamo evocata come una fedele compagna quando la complessità dei nostri sentimenti ci sembrava indecifrabile. L’abbiamo indagata, analizzata, sezionata. Ne abbiamo sondato i misteri, esplorato le ragioni, individuato il suo posto nel nostro patrimonio genetico. Ne abbiamo apprezzato la rassicurante onnipresenza: volteggiante tra le righe di un romanzo, suadente tra una rima e l’altra di una poesia, esplosiva tra le pennellate di un quadro. L’abbiamo scorta riflessa nei nostri cuori di siciliani: e ne siamo rimasti incantati. La parola Sicilitudine appartiene ormai con una certa solidità al nostro vocabolario e tutti, più o meno, saprebbero elencarne qualche saliente caratteristica. Non altrettanto semplice, tuttavia, è rintracciare l’origine di quello che, un tempo, poteva certamente essere considerato un vero e proprio neologismo. Benché, infatti, la maggior parte del grande pubblico addebiti il merito a Leonardo Sciascia (che vi fece riferimento per la prima volta nel 1969), il primo utilizzo di questa espressione a noi tanto cara risale al decennio precedente rispetto alla menzione sciasciana, e appartiene ad un grande, ma dimenticato, intellettuale palermitano: Crescenzio Cane.
Un nome probabilmente sconosciuto ai più. Eppure, senza la preziosa intuizione di questo pittore di grande valore, nonché poeta, romanziere e saggista, oggi, forse, saremmo mancanti di un’imprescindibile risorsa linguistica, che contribuisce in maniera unica alla demarcazione della nostra secolare identità. Fu nel saggio d’apertura a La corda pazza che Sciascia, seppur indirettamente, menzionò per la prima volta il padre della Sicilitudine, attribuendola ad uno «scrittore siciliano d’avanguardia». Il riferimento conduce ad un racconto – negli anni ristrutturato secondo criteri saggistici – che Crescenzio Cane aveva scritto nel 1959 e a cui aveva dato proprio l’emblematico titolo Sicilitudine. Nonostante la notazione sciasciana, passò del tempo prima che al palermitano venissero riconosciuti pienamente i suoi meriti. L’anno di svolta fu il 1972. Ospite della casa-studio in cui Cane, afflitto da problemi economici, realizzava le sue tele, Sciascia rimase abbagliato dalla bellezza di quelle opere sapientemente intrise di spirito popolare e di raffinata cura, tanto da spingere perché venissero messe in mostra. Lo scrittore di Racalmuto ci aveva visto lungo: nel dicembre dello stesso anno, il proposito divenne realtà e il successo fu clamoroso. Di quella mostra Sciascia scrisse pure la presentazione al catalogo. Ed è lì che delineò, senza mezzi termini, i primi passi di una parola che avrebbe fatto storia: «Crescenzio Cane – scriveva – è l’inventore della parola sicilitudine che lettori distratti e critici peggio che distratti ingiustamente e ingiustificatamente ritengono mia. Lo dicevo chiaramente, che era stata coniata da altro scrittore siciliano, e d’avanguardia; ma quasi nessuno ci ha fatto caso…». Caso risolto, dunque. Anzi no. Perché resta da chiedersi se la parola abbia sempre avuto il senso che oggi le è maggiormente riconosciuto. Questa è la definizione data dal suo creatore: «Sicilitudine è una condizione dello spirito. Nel mio saggio del 1959 in cui la definivo descrivevo che scaturiva dalla paura e della solitudine che ti assaliva a vivere in Sicilia, terra di illusioni e delusioni, di slanci e di tirannidi: il fascismo prima, la mafia dopo». Ecco, allora, che dinanzi alla nostra curiosità si schiude un altro dato interessante: almeno inizialmente, la Sicilitudine sembrava essere associata a sentimenti perlopiù negativi. Ed è qui che, alla fine della nostra storia, torna in gioco Leonardo Sciascia: fu la sua mediazione a permettere la diffusione capillare della parola. E fu la sua sensibilità a plasmarne il volto in cui oggi ci riconosciamo.
Perché sì, la Sicilitudine è ancora una categoria dello spirito, come indicato da Cane. È ancora l’amarezza per il fragoroso frantumarsi di un’illusione, la paura di un tempo che oscilla tra stasi mortifera e ritmo insostenibile. Ma è anche una malinconia venata di dolcezza, un senso di fragilità bilanciato da una forza propulsiva altrettanto viva, una reazione istintiva e sentita verso ciò che non ci piace e che vorremmo cambiare. È profonda conoscenza di sé, slancio all’azione e alla conoscenza, segno distintivo di una civiltà che non cede alle difficoltà, di una fiamma che continua a rischiarare le nostre oscurità. Se la Sicilitudine è paura, lo è in senso positivo. È il coraggio di stare in guardia e al contempo di rischiare. E di sentirsi vivi.