Ogni anno che passa, il mio rapporto con il Natale si fa più articolato. Prima includeva solo Gesù bambino e Babbo Natale, poi entrambi sono scomparsi in ordine inverso e sono rimaste le canzoni, i dolci, i pacchetti. È rimasta la famiglia, con le sue aspettative e i suoi abbracci, il suo baccano e le sue imperfezioni.

Da più grande, il Natale ha perso magia e acquisito sfumature capitalistiche: la corsa ai regali, le pubblicità, le offerte dell’ultimo minuto. E ancora i film, i brani creati ad hoc, le luminarie… Ogni cosa si spogliava progressivamente del suo incanto e si rivestiva di mantelli lustri ma volgari. La pandemia ha complicato tutto e quest’anno, fra le zone di diverso colore e il tanto dibattuto Super Green Pass, è probabile che il 25 dicembre sia soggetto ad altri smottamenti non indifferenti.

Ventitré Natali in cui è il Babbo a scrivere ai bambini per raccontare delle sue mirabolanti avventure in Lapponia e tenere loro compagnia

C’è però, in questa festa, una scintilla in cui credo ancora. Una luce di cui vado sempre alla ricerca, e che di volta in volta mi raggiunge tramite strade imprevedibili e affascinanti, proprio com’è successo nelle ultime settimane con le Lettere da Babbo Natale scritte tra il 1920 e il 1943 da J.R.R. Tolkien ai suoi figli, e raccolte da Bompiani in un’edizione illustrata a cura di Baillie Tolkien e di Marco Respinti.

A guardarlo, si direbbe un volume colorato e curioso adatto forse ai più piccoli, eppure basta soffermarsi su una qualsiasi delle illustrazioni che accompagnano le missive per restare a bocca aperta: ventitré Natali durante i quali è stato il Babbo a scrivere ai bambini, per raccontare delle sue avventure in Lapponia e per tenere loro compagnia con episodi mirabolanti e ben lontani dal primo dopoguerra e dal secondo conflitto mondiale in cui la società era coinvolta.

Le lettere erano scritte a mano, venivano affrancate dal Polo Nord e includevano ogni sorta di disegno pronto a spiegare nel dettaglio cosa fosse capitato a orsi polari, elfi magici o blocchi di ghiaccio: insomma, una vera epopea natalizia, con protagonista il più amato dei personaggi incantati, pronta a trasformare l’Avvento in un momento fantasioso e sorprendente, nel corso del quale poteva accadere davvero di tutto.

Così, tra guerre con i goblin e il tetto caduto nella sala da pranzo del Babbo, lo spirito del Natale che mi si era seccato in gola si è riacceso

Ho deciso di sfogliarlo per bene, dall’inizio alla fine, per l’ennesima volta. Ho letto delle guerre con i goblin, del tetto caduto nella sala pranzo di Babbo Natale per colpa dell’Orso Bianco e della luna rotta in quattro pezzi. Ho cercato di decifrare la sua grafia, ho sbirciato le buste e i francobolli tutti diversi tra loro, e ho immaginato l’effetto che avrebbero sortito su di me da bambina, ritrovandomi a sorridere dalla meraviglia pure ora che ho quasi 27 anni.

Così, lo spirito natalizio che mi si era un po’ seccato in gola si è riacceso e mi ha ricordato che dopotutto il senso del Natale è l’Altro. Certo che è tutto un teatrino, certo che ha preso mille derive, certo che ci sono i finti Babbi, i Grinch e pure i Sindachì in giro per le strade (anzi, stavolta speriamo restino a casa), però non è tutto qui. O meglio: se vogliamo, può non essere tutto qui.

Babbo Natale può continuare a esistere – non per noi, va bene, ma in noi. Con noi. È un simbolo, diceva qualcuno. È una speranza, diceva un’altra. Tolkien ci spiega che è un regalo in sé stesso, è una sorta di testimone che passa di mano in mano. Perché il senso del Natale non sta nel ricevere, non è statico, non assomiglia nemmeno ai fantasmi dei Natali passati o futuri. Il Natale è vivo perché è “presente”. Perché non lo tratteniamo, e non lo conserviamo per noi.

È Natale perché (e per chi) è in viaggio e in nostra compagnia, per chi aiutiamo a camminare ancora. A questo si può credere, in questo ci si può impegnare. Qualunque età si abbia, da dovunque si provenga, lettere e parole come quelle di Tolkien vedrete che funzioneranno alla grande.

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