Il rigore speculativo del freddo Nord e la calorosa intensità del Sud. La tenace determinazione di una fiera guerriera e la tenera, leggera curiosità di un’avventuriera. L’ammirazione per l’illuminismo pittorico di Pietro della Francesca e la passione per la destabilizzante poetica di Munch. Conciliare questi elementi così apparentemente distonici potrebbe apparire come un’impresa senza speranza. Come il tentativo impossibile di abbattere una barriera intrinsecamente ossimorica. Eppure, a volte, è nel paradosso che si consumano le armonie più profonde. I legami più solidi tra vita e arte, tra realtà e finzione, tra mente e cuore. Possono celarsi per anni, balbettare ansiosi dietro un sottile senso di nostalgia, rimbombare tra un sogno e l’altro con la loro eco senza nome. E poi esplodere con fragore nello spazio di un secondo, rivelarsi antichi quanto il proprio desiderio di scoperta. È proprio così che ebbe inizio, in Sicilia, la storia di una donna che avrebbe segnato, nel giro di appena vent’anni, un’epoca fondamentale per la storia della pittura e dell’emancipazione femminile. Elisa Maria Boglino, infatti, fu ben più che una talentuosa e versatile artista: fu un’icona di resilienza e di stile, un’intellettuale in continua evoluzione, un’anima che rifiutò di essere confinata in qualsivoglia convenzione o imposizione. E fu, soprattutto, una donna che amò follemente la nostra terra. Che contribuì, certamente, al fiorire del suo contesto artistico, ma che, prima di tutto, seppe rendere, per buona parte della sua vita, un rifugio carico di suggestioni e di purezza.

La sua fame di sapere la spingeva
costantemente in giro per il mondo.
Fu in una di queste circostanze,
a metà degli anni ’20, che avvenne
il fatale incontro con la Trinacria

Nata a Copenaghen nel 1905 – e cresciuta nella città danese proprio negli anni in cui, all’entrata del porto, faceva la sua comparsa la celeberrima statua della Sirenetta ispirata alla fiaba di Hans Christian Andersen – mostrò fin dalla giovinezza una certa propensione per la pittura e per la tecnica dell’affresco. La sua fame di sapere la spingeva costantemente in giro per il mondo, accompagnata dall’inseparabile madre. Fu in una di queste circostanze, a metà degli anni ’20, che avvenne il fatale incontro con la Trinacria. Il suo amore per l’arte araba e bizantina l’aveva condotta tra le strade dell’isola, che immediatamente le rapirono il cuore. In tutti i sensi. Nel 1927, infatti, sposò l’avvocato Boglino, da cui trasse il cognome con cui è ancora universalmente nota, e fece della Sicilia la sua nuova casa. Il suo approccio cosmopolita all’arte la rese un caso più unico che raro: le sue commistioni di geometrie e colori, di espressionismo e spiritualismo attirarono l’attenzione, tra gli altri, dei futuristi Lia Pasqualina Noto e Pippo Rizzo, che a più riprese ne esaltarono l’estro e il coraggio vivere autonomamente la propria arte. Anche quando la sua raffinata complessità e il suo agire ardimentoso finivano per cozzare con la censura fascista e con le norme di comportamento dettate dal maschilismo borghese: «Riuscire a raggiungere una certa considerazione, circoscritta nei limiti della compiacenza maschile, – disse una volta Lia Pasqualina Noto, come riporta l’Enciclopedia delle donne – poteva essere relativamente facile agli inizi, ma superare la barriera che ad un certo momento si frapponeva fra la donna ed il conseguimento dei più alti riconoscimenti era praticamente impossibile». Ma, citando un altro genio di cui si è da poco celebrato il venticinquennale della morte, come può uno scoglio arginare il mare? Le sue opere finirono per affollare le più prestigiose gallerie nazionali ed internazionali. La sua voce poetica, fatta di inquietudine ma anche di un incrollabile speranza, di forme frazionate e misteriose ma anche di una coinvolgente e affettuosa corporeità – come si evince dall’affresco Le buone azioni o nella tela Il buon samaritano – era ormai troppo forte, troppo riconoscibile per non essere sentita urlare. Nemmeno il sopraggiungere della guerra, che costrinse lei e i suoi cari a vivere per anni isolati in una vecchia abbazia nei pressi di Cefalù, fu capace di arrestare la sua creatività. La pace agreste e sospesa di quella tenuta, il silenzio assordante di una terra svuotata dal dolore delle armi, ne influenzarono ulteriormente la produzione, votandola più sistematicamente alle pagine della Bibbia. Molte di quelle opere, oggi, non sono più fruibili a causa dei danni provocati dal conflitto.

Furono quelli, tuttavia, gli ultimi passi compiuti nella sua amata Sicilia. Il resto della sua vita lo trascorse a Roma, sempre memore di ciò che aveva vissuto ed imparato in quella terra tanto distante delle coste nordiche che le avevano dato i natali. Distante sì, ma, forse, non così tanto. La sua ultima esposizione, datata 1979, si svolse proprio a Copenaghen. All’ombra di quella sirenetta che aveva visto nascere. E che non aveva potuto seguire il suo spirito vagabondo. Vagabondo come quello di una danese che sognava di essere siciliana. E che, effettivamente, ci è pure riuscita.

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