Per esprimere compiutamente tutte le sfumature della complessità, a volte, è necessario comprimerle nella densità fulminea di un pugno di parole. Lavorare, parafrasando un famoso detto appartenuto a Michelangelo, più per sottrazione che per estensione. Limare e riforgiare gli spigoli più magmatici del proprio sentimento nella conchiusa architettura di un getto d’inchiostro. È questo, in fondo, uno dei più affascinanti misteri della poesia: l’equilibrio instabile, ma sempre miracolosamente in piedi, tra il detto e il non detto, tra l’impulso del contenuto e il raziocinio della forma, tra il fluire della memoria e la sua eterna cristallizzazione sulla pagina. Serve quasi, al coraggioso poeta, un linguaggio inedito, che solo apparentemente si lascia avvicinare alla consuetudine. Un linguaggio fatto di connessioni ardite e improvvise, di suoni modellati sulla sinuosità di un respiro. Serve quasi, insomma, un linguaggio forse estinto, ma ancora, per qualche antica e profonda ragione, sapientemente familiare. Lo aveva ben compreso, e altrettanto ben messo in pratica, il nostro Stefano D’Arrigo, nella sua unica raccolta poetica dal titolo Codice siciliano, che molti ritengono il laboratorio creativo più prossimo alla realizzazione di quello che sarebbe diventato il suo capolavoro, vale a dire Horcynus Orca. A dispetto di quanto l’intestazione possa indicare, tuttavia, l’opera del messinese – pubblicata originariamente nel 1957 e poi a lungo sepolta dal tempo fino al 2016, quando venne ripubblicata da Mesogea Edizioni – non fa uso del siciliano. Eppure, del tempo e dello spazio che fanno da cornice a questi splendidi versi, la Sicilia è epicamente protagonista. Nella forma di un rimpianto, di un volto sinuoso, di un piccolo ma inestimabile ricordo di felicità.

Quello compiuto da D’Arrigo con l’ausilio della lirica è, a tutti gli effetti, un viaggio dell’anima. Una ardita navigazione nei mari del passato, che sembrano riaffiorare seguendo il ritmo della risacca, fino a posarsi lievemente accanto al loro cantore. Ed è proprio lì, in questi frangenti di malinconica contemplazione, che la Sicilia del cuore si fa largo in tutte le sue sfaccettature. Rivive nelle nenie cantilenanti dell’infanzia, nell’abbraccio di una madre che già presagisce il futuro distacco dal proprio neonato, nelle sere d’estate spese a vaneggiare ingenuamente, a discorrere di vite immaginarie, ad architettare timide e balbettanti conversazioni con la ragazza dei propri sogni. E ancora la fanciullesca nostalgia per la folla che accompagnava le processioni di paese, l’olfatto dolcemente invaso dal «familiare odore di miele e fichidindia», l’inesprimibile, ma sempre anelata, semplicità di un mondo non più raggiungibile, se non, a tratti, con la poesia. «Taormina, mia Mignon, – intona il poeta, rievocando chissà quale impressione giovanile – è dove mai / sempre s’arriva, pellegrini / dal cuore di rughe, / in tempo per vivere / obliti obliviscendi / una seconda volta la vita».

Immancabili, poi, i riferimenti al mare e alle sue implicazioni esistenziali. Quella delle traversate della speranza, verso lidi ignoti che custodiscono speranze di avvenire. Quella dei marinai, fiaccati da una immane fatica eppure sospinti da una forza quasi mistica nel loro interminabile andirivieni tra costa e largo, tra terraferma e mareggiata. Distanti da tutto e tutti: dagli affetti, dallo scorrere della vita, perfino da sé stessi. Mentre la poesia – come poi, sulla scorta di illustri esempi quali Melville ed Hemingway, farà Horcynus Orca – si avventura insieme a loro. Sul volto di giovani pronti a salpare verso un nuovo, amaro confine. Verso ciò che non profuma più di tenerezza:

«È sera e ci diciamo a Sud: “Italia”»,
noi maschi, fumando, sottovoce,
sulla riva del mare in un’estate.
Un nome, il Nord, l’antico futuro,
l’amico un nulla sussurra all’amico,
profilo appena di donna lontana
sulla moneta, la nostra ventura.
Ma Italia oh come con nulla colora
in bocca a noi, avvenire di cafoni,
oh come fra le dita qui si onora
la sua capigliatura di cometa,
quella chioma più lunga della vita.
 
Gioventù qui ci passa ad annodare
la lunga treccia che si chiama
Italia, e pare gioco da focolare.
A un nodo ci ama, all’altro ci minaccia,
ora ci cresce di fede e di voglie
e ora quel che ci concede, ci toglie.
Mettete, madri, il nostro cuore in boccia:
a un capello di donna è legato
il destino che ci fu svelato».

“Codice Siciliano”, Gioventù qui ci passa ad annodare

Cercava sé stesso, D’Arrigo, tra le pieghe di quegli istanti per nulla sbiaditi. Ma cercava anche la pietra angolare della nostra comune memoria. Il fuoco candido di un passato mai estinto. Un segno – un codice, appunto – che riassumesse l’alternarsi delle stagioni e delle generazioni. E da questa ricerca, a cui ognuno di noi è chiamato, ciò che è stato generato è una sorta di poema delle origini. Un canto siciliano in una lingua che fu. E che in parte, ancora, continua ad essere.

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