Istituire un rapporto diretto tra la poetica di un letterato e il suo vissuto socio-familiare è un’operazione spesso destinata a rimanere infruttuosa. Troppe varianti, troppe asimmetrie, troppi fattori emotivi e lontani dalla linearità finiscono per intercorrere in quel fascinoso e delicato passaggio che è la trasposizione in scrittura di un’emozione. Qualcuno, addirittura, a riprova estremizzata di tale concetto, ha persino sostenuto che le opere letterarie andrebbero studiate per ciò che sono, attraverso il volto che di sé offrono al lettore, senza mai sconfinare nella tentazione di ricostruirne la genesi storica. Sarà. Una cosa, tuttavia, è certa: non dar conto a quella tentazione è tutt’altro che semplice. Perché esiste, in ogni scritto, una sorta di intercapedine della memoria, dove vita e finzione si stringono apertamente la mano, scambiandosi persino le fattezze. Così la realtà dell’esperienza si tramuta in un artefatto di parole, e viceversa. Di casi illustri, poi, di questa necessaria contaminazione tra vissuto e non vissuto si potrebbe riempire una lista potenzialmente infinita. Si può ignorare, ad esempio, il trauma dell’esilio e dell’invasione straniera approcciandoci alla poesia di Ugo Foscolo? Si può tralasciare, immergendoci nei suoi straordinari romanzi che come nessun altro sanno scandagliare le profondità dell’animo umano, di considerare quanto decisiva fu per Fëdor Dostoevskij l’esperienza da condannato a morte graziato proprio qualche istante prima dell’esecuzione sul patibolo? E ancora: quale Hemingway leggeremmo senza il suo doloroso coinvolgimento nei due conflitti mondiali? È un tema, quello del riflesso del reale nell’immaginario, che naturalmente coinvolge anche i grandi scrittori isolani. Pirandello su tutti. Di lui, per di più, si è occupato uno “studioso” d’eccezione, vale a dire Andrea Camilleri. A lui si deve infatti Biografia del figlio cambiato (1° edizione Rizzoli, 2000), una peculiare ricostruzione delle dinamiche familiari entro cui si snodò l’esistenza dell’autore dei Sei personaggi. Un contributo prezioso, che fuor da ogni pretesa di esattezza – come lo stesso Camilleri tiene a sottolineare fin dall’esordio della sua fatica – ripercorrendo a più riprese i passi compiuti dal giovane Luigi, riesce tuttavia a gettare luce su alcuni degli aneddoti e degli eventi-chiave che più contribuirono a rendere Pirandello un osservatore implacabile delle assurdità umane.

In cima a questa sfilza di dissonanti vicissitudini non poteva che esserci il luogo di nascita dello scrittore. O, piuttosto, come lo definisce Camilleri tingendo il suo scrivere con il pensiero pirandelliano, un non-luogo. Quella contrada, del resto, divenuta celebre per il suo nome – Caos – da un giorno all’altro, per decreto di Ferdinando II, si era ritrovata a fungere da linea di spartizione tra Girgenti e il neonato comune di Porto Empedocle. Ad essere, essa stessa, né carne né pesce. Frastagliata, ricoperta di terreni boschivi, divisa a metà tra due comuni. Esistente nella sua inesistenza. Dotata solo di quel nome altisonante. Anch’esso, tra l’altro, nato dal nulla: «La linea di confine tra i due comuni, lungo la litoranea, venne fissata all’altezza della foce di un fiume da tempo immemorabile essiccato che tagliava in due una contrada, chiamata ora “’u Càvusu ora “’u Càusu”. Ora, in dialetto siciliano, tanto càvusu quanto càusu significano la stessa cosa: pantaloni. E veramente un paio di pantaloni doveva parere quel pezzo d’altopiano taliàto da chi vi giungeva per via di mare, spaccato com’era in due proprio dal quel greto asciutto, arido, pietroso che ci stava in mezzo. E dunque, di questo Càvusu, una metà apparteneva al nuovo Comune di Porto Empedocle e l’altra metà al comune di Girgenti. Un bel giorno, a qualche impiegato dell’ufficio anagrafe, parse che non era cosa scrivere sul registro delle nascite che qualche figlio di viddrani era nato dentro a un paio di pantaloni e cangiò quel volgare “Càusu” in “Caos”. E da allora la contrada si chiamò così».

A più riprese – è noto – Pirandello amò definirsi figlio del Caos. Ma quel paradosso, quella incomprensibilità così radicata nel suo sentire, non fu certo il risultato soltanto di quel singolo, e singolare, episodio. Fu soprattutto il burrascoso rapporto col padre Stefano a suscitare in lui un certo malessere di fondo. Malessere nei confronti della sua autorità, a volte percepita come gretta e asfissiante, incapace di comprendere i nascenti slanci del suo giovanile ingegno. Malessere nei confronti della sua ipocrisia, quando scoprì, all’età di quattordici anni, che la felice facciata del connubio matrimoniale celava in realtà tradimenti e vite parallele. Da una di queste, spesa ad amoreggiare con una cugina, il padre di Pirandello aveva visto nascere persino un figlio, che Luigi finirà per detestare con acrimonia per tutta la vita. Sempre di più, fa notare Camilleri nella sua appassionata ricostruzione, nella mente dello scrittore – nella quale rimbombavano anche le infauste predizioni dei paesani, che gli attribuivano una connaturata vicinanza al male per il solo fatto di essere nato prematuro, al settimo mese di gravidanza – si faceva largo l’idea di un’estraneità totale al mondo che lo aveva bizzarramente accolto. Sempre più, in quella visionaria sensibilità, si facevano largo le storie narrate dalla balia Maria Stella, a cui Pirandello tornerà a più riprese per prendere ispirazione per alcune sue novelle. Tra queste, non a caso, ce n’era una che più di ogni altra l’aveva impressionato: la storia del figlio cambiato. Una vicenda classica del repertorio popolare, che fra varianti folkloristiche, fra streghe e principi, racconta sostanzialmente della ricerca disperata messa in atto da una madre che ha visto il proprio legittimo figlio scambiato in culla. E Luigi, che in quella famiglia si sentiva tutto fuorché compreso, ha la sensazione che quella storia parli di lui. Che le sue intuizioni sull’insensatezza dell’agire umano, sull’incomunicabilità e sull’impossibile compiutezza del concetto di identità, abbiano l’aspetto di una amara scoperta. «Appena in età di ragione, Luigino comincia ad avere dei dubbi sulla sua appartenenza. Cosa ha da spartire lui, compassato, tutt’altro che discolo, incline al raccoglimento, con grandi occhi attenti tra i riccioli castani che scendono sino ai lati del viso con quell’omaccione ululante, iroso, impulsivo, che tanto fa piangere la mamma?». Altrove Camilleri scriverà: «Tra loro, perciò, non correva né la manifestazione di un sentimento né la possibilità di un rapporto ragionato».

Dallo sgretolamento dell’identità alla poetica delle maschere il passo è breve. Così come dalla compressione alla follia. O forse, in fondo, il passo non è così breve. Forse la storia di quel bambino nato in un luogo mai esistito non è che la storia di altri bambini. La storia di bambini divenuti ragazzi in famiglie non idilliache, certo, ma comunque famiglie. Forse, anch’essa divenuta, col tempo, una commedia da teatro della vita. La storia di uno scrittore che versa il proprio inchiostro su quello di un altro scrittore. In un cerchio infinito tra essere e non-essere. Tra vita e parole che le somigliano.

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