Carmine Abate:
l’emigrazione,
l’arbëresh e i sapori
dell’appartenenza
Lo scrittore al Dipartimento di Agraria dell’Univeristà di Reggio Calabria ha presentato il suo ultimo volume “Il banchetto di nozze e altri sapori”: «Mi sono detto che tutta la negatività della condizione dell’emigrante comincia dallo sguardo che si assume su di sé»
Dalle sue vicende personali al futuro della nostra terra, dalle riflessioni sull’emigrazione italiana al senso delle tradizioni, lo scrittore Carmine Abate (già vincitore nel 2012 con “La collina del vento” del premio Campiello, e nel 2016 del premio Stresa con “La felicità dell’attesa”) ha presentato la sua ultima opera alla Biblioteca del Dipartimento di Agraria dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Un’intervista in pubblico condotta dal Prof. Salvatore Di Fazio, che ha consentito di esplorare a fondo la ricchezza delle pagine del libro e di entrare in modo suggestivo nel mondo e nella visione dell’autore.
L’alternarsi di partenze e ritorni segna il respiro di interi territori del Sud. Anche ne “Il banchetto di nozze e altri sapori”, come negli altri suoi libri, ciò si avverte sin dalle prime pagine.
«Il tema dell’emigrazione si lega alla mia comunità di origine, quella arbëresh. I profughi albanesi che dalla seconda metà del XV secolo sono arrivati nel Sud Italia hanno fondato diversi paesi, costituendo una sorta di arcipelago culturale oggi molto rilevante soprattutto in Calabria e Sicilia. Io sono nato in uno di quei centri, a Carfizzi nel 1954, l’anno in cui in Italia arrivava la TV con le prime trasmissioni RAI. Fino all’età di sei anni parlavo solo l’arbëresh. La lingua italiana l’ho incontrata per la prima volta a scuola. Da allora ho dovuto sempre mettere a confronto la mia identità con le altre. Ho iniziato a capire le mie radici quando di anni ne avevo sette e sulla spiaggia di Punta Alice vidi mia nonna prendere una manciata di sabbia e baciarla. Lo stesso gesto – dopo, nello stesso luogo – lo avrei visto fare a mia madre e spiegato a mio figlio. È un gesto di memoria collettiva, in ricordo di coloro che nel Quattrocento proprio lì erano sbarcati fuggendo dagli ottomani».
La sua vita personale si è dovuta confrontare spesso con l’emigrazione. Qual è stata la sua esperienza?
«Ho fatto parte di una famiglia in cui tutti sono partiti. Mio nonno nel 1903, cercando lavoro e fortuna negli Stati Uniti. Poi è partito mio padre, quando avevo solo quattro anni. È partito subito dopo la Riforma agraria, che si è avviata proprio in Calabria, con l’occupazione dei latifondi e le rivolte dei contadini sedate nel sangue. Certo, se la Riforma si fosse attuata diversamente, se ai contadini non fossero toccati che dei minuscoli fazzoletti di terra incolta, petrosa e improduttiva, forse tanti non sarebbero stati costretti a emigrare. Invece, mio padre è partito; ha fatto il minatore in Francia, poi si è trasferito in Germania, passando gran parte della sua vita ad asfaltare strade. Mio padre è emigrato per dare futuro ai figli, per farmi studiare, certo che solo con la cultura e l’istruzione avrei avuto accesso a una vita migliore. Infine, anch’io son partito».
Per quale motivo?
«Per necessità. Ho studiato Lettere in università a Bari. Avrei voluto fare l’insegnante. Dopo la laurea mi son fatto i conti: fossi rimasto in Calabria, con incarichi precari, forse sarei entrato in ruolo a 53 anni. Così sono andato via, anche io per poter lavorare. Ho avuto i primi incarichi di supplenza nel Nord Italia e poi ho insegnato nelle scuole italiane in Germania: ad Amburgo, Bielefeld, Brema, Lubecca e, per sei anni consecutivi, a Colonia. Da laureato, ho vissuto gli stessi problemi degli altri emigranti. La difficoltà di integrazione, le discriminazioni, il razzismo».
Quando si è scoperto scrittore e come la scrittura le ha aperto uno sguardo nuovo sull’esperienza?
«La prima volta che sono andato in Germania ho sentito, proprio lì, l’urgenza di scrivere per denunciare l’ingiustizia dell’emigrazione, perché ognuno ha il diritto di restare e di lavorare nella propria terra. Ho cominciato a scrivere per rabbia e con rabbia. Più tardi, a Colonia, mentre insegnavo italiano ai figli degli emigranti, mi si è accesa una lampadina: dovevo trasformare questa esperienza da ferita, qual era, in ricchezza. Mi sono detto che tutta la negatività della condizione dell’emigrante comincia dallo sguardo che si assume su di sé. Non dovevo più guardare a me stesso con gli occhi degli altri, altrimenti non avrei neanche potuto più capire chi ero. Per i tedeschi ero uno straniero emigrante, per gli altri stranieri un italiano, per gli italiani del nord un terrone meridionale, per i meridionali un calabrese, per i calabresi un arbëresh, per gli arbëresh del mio paese un “germanese”. Mi sono chiesto: chi sono io? Sono semplicemente Carmine Abate. È da allora che ho deciso di guardarmi in un altro modo e di vivere per addizione.
“Vivere per addizione” è una sorta di motto della sua vita. Cosa intende?
«Noi siamo come alberi, non possiamo vivere senza radici. Ci sono alberi, come i ficus magnolioides, che man mano che crescono hanno bisogno di mettere nuove radici, radici aeree, radici “volanti”. Sono radici vive, se uno le spezza ne esce sangue, vita, linfa. Così noi dobbiamo curare le radici iniziali, quelle dell’origine, ma dobbiamo anche prenderci cura di quelle nuove, quelle che man mano mettiamo crescendo, in altri luoghi».
Ne “Il banchetto di nozze” c’è un racconto che si intitola “Canederli”. Il tentativo di trovare una sintesi positiva delle esperienze attraversate si serve di metafore alimentari?
«I canederli li ho apprezzati per la prima volta in Trentino e da quando abito lì sono una pietanza che sento mia. Anche i sapori si sommano, si mischiano come le nostre vite, ed ecco allora che così son venuti fuori i canederli con la ‘nduia: come dire un sapore nuovo con retrogusto per me antico. Siamo tutti fatti degli stessi ingredienti, a cambiare sono le proporzioni, l’amalgama. Nel mio libro lo stesso concetto è espresso così: “Ogni luogo è un sapore. Chissà che palato ricco di gusti ti farai vivendo in tanti posti diversi. L’importante è che li aggiungi ai sapori della nostra terra, di quelli siamo fatti nel profondo, della sua scorza odoriamo, anche se viviamo altrove”».
Oggi si pranza spesso da soli. Eppure il mangiare insieme e in famiglia ha un valore sociale enorme, non crede?
«Il cibo è un punto d’incontro tra la nostra cultura e quello che il territorio ci offre. Intorno a esso si tessono rapporti, si trasmette cultura, si scambiano valori e insegnamenti e, soprattutto ci si accoglie l’un l’altro. Sono cresciuto in una comunità in cui i bambini mangiavano a tavola con i grandi. Chiunque si trovasse a passare da una casa con la tavola imbandita veniva invitato a sedersi tra i commensali, anche solo per un momento, con la consueta frase “A favorire”. Questa dimensione comunitaria è ciò che oggi più ci manca».
Nel suo libro, in epigrafe, lei cita una frase di Jean-Claude Izzo “Cucinare, mangiare vuol dire questo: accogliere. Gli amori, gli amici, i figli, i nipoti”. Come si sviluppa, intorno al cibo, l’accoglienza?
«Quando mio padre per un certo periodo, lasciata la Germania, si ristabilì a Carfizzi, prese a lavorare in paese come fruttivendolo. D’estate lo aiutavo. Andavamo in giro col camioncino a vendere le angurie della valle del Neto, belle e dolcissime. Un giorno ne avemmo una gigantesca, pesava quasi un quintale. Tutti vennero a guardarla, radunati intorno a noi. Allora mio padre con un colpo secco vi affondò il coltello nel punto centrale e l’anguria si aprì in due con un botto, rossa e succosa. Ne distribuì le fette tra i presenti e fu una festa. A me fu riservata la parte migliore, quella centrale, la “cresta del gallo”. Ci sono tante ricorrenze nelle quali il desinare insieme abbraccia tutti, anche i defunti, ed è sempre una festa. Così è in molti paesi di tradizione albanese del Sud Italia, nei quali in occasione della ricorrenza dei defunti si preparavano dei dolci tipici e si andava al cimitero per offrirli, davanti alle tombe dei propri cari, a coloro che venivano a prestar omaggio».
I media sono invasi dai discorsi sul cibo e le tradizioni alimentari. Si potrebbe pensare che anche Carmine Abate sia approdato al filone letterario-gastronomico. Invece, che tipo di libro è “Il banchetto di nozze e altri sapori”?
«Tra i miei libri questo è forse il più autobiografico. Parlo di episodi della mia vita, tutti in qualche modo legati a cibi e sapori. Il rapporto con il cibo tocca la quotidianità delle relazioni umane e molti degli insegnamenti che ho ricevuto hanno a che fare con esso. In un altro mio libro, “Il bacio del pane”, la posizione morale del personaggio che è al centro del romanzo viene rivelata proprio da quel gesto, un gesto antico. Da bambino ricevetti da mia madre uno scapaccione memorabile, uno dei pochi, perché avevo buttato una fetta di pane che mi era caduta per terra. Il pane non si butta; quello caduto semmai lo si dà agli animali, ma prima lo si bacia: è un segno di rispetto per il lavoro e la fatica che il pane contiene, la gratitudine per il dono che ce ne è fatto. Quell’estate in cui sono andato la prima volta ad Amburgo a trovare mio padre, ancora studente, ho lavorato in una fabbrica di conserve alimentari. Mi diceva mio padre “Lavora, così impari come si mangia il pane”. Oggi questo legame così stretto tra la fatica di produrre il cibo, la terra e la tavola imbandita, non è immediatamente percepibile come presente nella nostra cultura. Dobbiamo recuperarlo».
Tra i tanti sapori di cui si parla nel libro c’è anche quello della “cuntentizza”. Che sapore è?
«Per gli emigranti e le loro famiglie è il sapore del ricongiungimento, del ritrovarsi con i cari di cui si era avvertita la mancanza. Per me, per tanti anni, è stato il sapore del compimento di un’attesa, del ritrovarci insieme a tavola con mio padre finalmente a casa per le ferie estive o per Natale. Oggi per me il sapore della “cuntentizza” è quello della riconciliazione con la mia terra, con le mie radici».
La narrazione che si dà della Calabria – sui giornali, in TV – frequenta superficialmente luoghi comuni consolidati. Come si scardina, invece, l’ovvietà?
«Ho voluto dare della mia terra una narrazione diversa, lontana dagli stereotipi del binomio “‘ndrangheta & peperoncino”, provando a rappresentarne la complessità, non per “strategia”, ma perché così è la realtà e uno scrittore ha il compito di raccontarne tutti gli aspetti. Anche noi abbiamo il nostro tartufo; ci sono altri sapori, altri paesaggi, la spiaggia di Punta Alice e i campi di sulla che fanno rossa la “Collina del vento”. C’è la ‘ndrangheta, anche io ne racconto, ma c’è anche chi ogni giorno la combatte ed è giusto dar voce a quella parte di società che resiste e costruisce».
La Calabria è rimasta indietro in tante cose, ma oggi segnali incoraggianti vengono dal settore agricolo e forestale. Quale futuro immagina per la regione?
«È nell’agroalimentare, nella qualità dell’ambiente, nella valorizzazione dei boschi che la Calabria deve innanzitutto vedere il suo futuro. Però deve anche imparare a organizzarsi diversamente, emulando altre regioni virtuose, come il Trentino, dove abito. Questo è il mio sogno: che qui si possa vivere bene di agricoltura e della bellezza del paesaggio, di un ambiente sano, di turismo. Occorrono formazione, organizzazione, qualità, professionalità, legalità. Il futuro sta lì. Il Dipartimento di Agraria di Reggio Calabria, può far molto per aiutare i giovani a cercarsi un futuro diverso in questa terra. Mi auguro che un giorno ciò possa accadere»