«Il mare non fa mai parte dell’orizzonte, è soltanto uno dei tanti punti dai quali si può fissare lo sguardo sul vulcano». Il romanzo di Daniele Zito si configura come una “guida anti-turistica”, che accompagna chi arriva lungo sentieri inesplorati e racconta verità amare, facendosi interprete di una mentalità tutta isolana, o meglio, etnea

«Meglio farsene una ragione: è impossibile amare Catania senza pensare chi diavolo me l’ha fatto fare». Daniele Zito ne è consapevole, anzi, di più: oltre ad ammetterlo a se stesso lo dice a chiare lettere anche ai destinatari di “Catania non guarda il mare”, uscito in libreria nell’estate 2018 per Laterza.

Nel sottolineare questo rapporto di odi et amo fra gli abitanti e la città che li abita, l’autore si rifà apertamente a Giuseppe Fava, al punto da descriverla a propria volta come una donna dai facili costumi, degradata e tenera, stanca e scomposta, di cui però si finisce inesorabilmente per innamorarsi.
E così, come se fosse il corpo di un’amante da esplorare, su cui sospirare e da cui lasciarsi incantare come da un anatema maledetto, la voce narrante ne percorre i punti nevralgici, in un dialogo immaginario con un “tu” straniero, arrivato in aereo dagli archi della Marina e ripartito troppo presto, quando l’anima del luogo, sotto l’epidermide, non ha fatto ancora in tempo a svelarsi del tutto.
Di quest’anima, però, Daniele Zito conosce le sfumature più scomode e non si vergogna a svelarle al suo ospite, letteralmente. Squarcia un velo di Maya dopo l’altro, con la delicatezza di chi venera l’oggetto della propria delusione. E si fa strada tra una leggenda e un’istituzione, fra il portone rosso dell’Experia e le collusioni Stato-mafia, fra statue dalle teste mozzate e tratti di lungomare unici al mondo.

“Catania non guarda il mare” diventa, così, una guida anti-turistica. Accompagna chi arriva lungo sentieri inesplorati, racconta verità amare e più di una volta si fa interprete di una mentalità tutta isolana, o meglio, etnea. Non è un caso che, secondo lo scrittore, la città abbia sempre il Mungibellu di fronte agli occhi e il mare alle spalle: «il mare non fa mai parte dell’orizzonte», spiega con profonda cognizione di causa, «è soltanto uno dei tanti punti dai quali si può fissare lo sguardo sul vulcano».
In molti casi, addirittura, i luoghi nominati non esistono più, oppure hanno cambiato completamente volto. Esemplificativo è lo sventramento di San Berillo, con le sue promesse non mantenute e i suoi arrosti che fumano un po’ troppo. Allo stesso tempo, dei pilastri rimangono eretti a distinguere Catania in ogni dove e ad ogni pagina: i tipici chioschetti ottagonali, per esempio, o i bar aperti 24/7, a prescindere dalla stagione in corso.
Nel leggere, pertanto, non si riesce a non sorridere. E ci si commuove, inevitabilmente. Che si viva in città o altrove, per forza o per scelta, si realizza quanto veritiero sia un punto di vista simile, impregnato di tradizioni e di ossessioni, una fra tutte quella della festa di Sant’Agata e delle tristi magie che porta con sé. La stessa patrona del capoluogo è una protettrice e una condanna per chiunque, con una scia di omertà e di cieca fedeltà capace di seguirla ovunque e di renderla magnifica nelle sue contraddizioni.

Ulteriori tematiche centrali sono la fallita riabilitazione di Librino, l’importazione di carne di cavallo dalla Polonia, lo spaccio di droga, la diffusione della musica neomelodica: argomenti che in apparenza non toccano la Catania bene e che, esattamente per questo motivo, fanno parte del nucleo urbano più di qualsiasi manifesto pubblicitario e campagna elettorale. Le mode passano, le problematiche restano.
E non ci sono generazioni di giunte comunali in grado di debellarle, giornalisti capaci di concludere quanto Giuseppe Fava ha iniziato, giovani abbastanza pronti a ricostruire librerie bruciate o a trovare lavoro dove non esistono né bandi né concorsi. D’altronde, “essere catanesi vuol dire custodire uno spazio vuoto: i soldi lo dilatano, i desideri lo restringono e la noia, a furia di renderlo evidente, lo colma”. È da qui che ha origine la rassegnazione tipica degli abitanti, da qui che sono state scritte tragiche pagine di vergogna storica e che architetti di fama mondiale hanno tentato di trasformare la città, senza riuscire a strapparla a se stessa.

Daniele Zito trasmette un’onesta eredità a chiunque abbia il desiderio di ascoltare la sua poesia, nascosta fra le righe di un forte rammarico e di una paura braccata dall’immobilismo, ma che respira aria pulita non appena emerge l’ennesimo paradosso traboccante di emozione. “Del resto, l’unico modo per appartenere a un sentimento è cedere ad esso, lasciare che ti appartenga, fino al midollo. Non ne vedo altri”.
Ecco perché, persuaso che il sentimento da cui è animato sia condiviso da un’intera comunità, compie l’atto folle e sconsiderato di pubblicare ogni capitolo su carta stampata, di affrontare la critica e i lettori più accorati, di aspettare che Catania si svegli dall’ennesima notte pastosa e disordinata per dirle “Ti ho dedicato un inno struggente e severo, mentre ti osservavo riposare” e sentirsi rispondere con aria distratta: “Va bene, lo leggo domani”.

Oggi, intanto, leggiamolo noi.

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