La prima volta che mi sono imbattuta nel nome Verbumcaudo è stata attraverso i racconti di mio padre che nei primi anni ’60, con la nonna ed altre donne e ragazzi, partiva dalla vicina Villalba (Caltanissetta) per la raccolta e la lavorazione dell’uva da tavola. Non credevo che questo vasto feudo nel territorio di Polizzi Generosa potesse anche rivelarsi la culla di curiosi aneddoti che molto raccontano della nostra isola. Almeno fino a quando alla mia memoria non si è intrecciata la vicenda personale e di ricerca di Alessandro Barcellona, autore del libro Verbumcaudo: la storia di un feudo siciliano come paradigma della storia della Sicilia, che prende le mosse dall’estate 1981. Quando a Vallelunga Pratameno (Caltanissetta) Alessandro e i suoi compagni «freschi di comunione» sentirono parlare dell’arrivo del Papa a Verbumcaudo. Fino a rendersi conto che quell’appellativo fosse tutt’altro che legato al sacro.

DAI MONACI ALLA MAFIA. Da qui parte la digressione che fa da filo rosso per tutto il libro: un volumetto di una sessantina di pagine, pubblicato in occasione del decennale della consegna del feudo alla comunità siciliana in cui l’autore risale fino all’XI secolo. Dall’affido di Ruggero II ai monaci cistercensi stanziati alla Magione di Palermo, le cui rendite provenivano da Verbumcaudo, ai cavalieri teutonici, passando per le nobili famiglie siciliane e la nuova borghesia dell’Ottocento, fino al 1921, quando una porzione di 800 ettari del feudo venne ereditato dall’armatore e, poi, conte Salvatore Tagliavia, in seguito alla morte della seconda moglie, Caterina Cammarata (di Corleone). «Con le riforme degli anni ’50 (Decreti Gullo) – racconta Barcellona – 650 ettari vennero affidati ai suoi lavoratori (grazie alla Cooperativa “Il risveglio” con sede a Vallelunga in via Garibaldi) e nel 1965, alla morte del conte, che era privo di figli, un avvocato senza scrupoli disse che c’erano dei debiti e nella dismissione dei beni cominciò ad avere rapporti con i Greco di Ciaculli, una borgata di Palermo, che detenevano un altro feudo di Tagliavia che si chiama Favarella». Quest’ultima era la base del capomafia dell’epoca Michele Greco, detto il “Papa”.

VERSO LA LEGALITÀ. Fu così che il feudo, 151 ettari in tutto, venne acquistato ad un prezzo stracciato e con mezzi poco limpidi, ipotecati da Greco con un mutuo dal Banco di Sicilia. «Fu Giovanni Falcone il primo a capire cosa stava accadendo. Con il metodo di contrasto mafioso che poi fece scuola, ovvero seguire le tracce del denaro emesso e incassato dalle cosche, notò non solo che il feudo era stato svenduto, ma anche che l’assegno emesso da un mafioso campano aveva un ritorno all’amministratore dei beni del conte Tagliavia. Un classico esempio di spoliazione mafiosa, come lo definì Falcone». Così, qualche anno dopo, alla fine degli anni ’80, arrivò il sequestro. In seguito fu affidato a un reggimento dei Carabinieri, diventando luogo di simulazione di guerra: «Sembrava la scena del film Platoon. Era terribile vedere nel cuore della Sicilia, come siamo abituati noi, quei campi sterminati di grano, nel silenzio, col vento che ondeggia sulle spighe, pieni invece di buche, fosse, mine che saltavano, di giubbotti antiproiettile, di elicotteri». La banca provò poi a metterlo all’asta per recuperare i soldi dell’ipoteca di Greco. A quel punto intervennero due figure fondamentali: la prima fu Vincenzo Liarda, sindacalista della CGIL di Polizzi Generosa, che «bloccò la procedura esecutiva per evitare che venisse messo all’asta. La preoccupazione era che partecipasse un prestanome e ritornasse in mano alla mafia. Liarda subì minacce e andò anche sotto scorta». L’altra fu quella dell’assessore regionale Gaetano Armao, il quale riscattò quei 151 ettari «che divennero patrimonio indisponibile della Regione, e quindi non più vendibile».

RISCATTO SOCIALE. La Regione decise poi di affidarlo a un Consorzio che da 6 Comuni ne conta oggi 21 (Consorzio madonita “legalità e sviluppo”), di cui è entrato a far parte anche Vallelunga, per poi darlo in gestione ad una Cooperativa. Dopo una serie di ritardi burocratici per l’affido a cooperative già esistenti, il Consorzio decise di formarne una con bando ad evidenza pubblica, la Cooperativa Sociale Verbumcaudo. «Sono undici ragazzi che coltivano il feudo a grano, uliveti, vigneti, pomodori, producono prodotti agricoli e si occupano anche dell’attività promozionale del feudo». Un lieto fine per questo territorio dall’etimologia incerta, che secondo le ricerche dell’autore potrebbe significare “monti verso Occidente”, dall’arabo, o “zona di pascolo”, dal latino. Un cambiamento del nome che meriterebbe un approfondimento a sé stante. Ma questa è un’altra storia.

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