Se vi è capitato di fare un’escursione sull’Etna, o di trovarvi comunque nei dintorni di Catania, è probabile che vi siate imbattuti in qualche strada periferica o sterrata dove una colata lavica si è solidificata, modificando la conformazione del territorio e dei sentieri, nonché della vegetazione circostante.

È quella che in Sicilia, con un significativo termine dialettale, viene chiamata sciàra, ovvero una zona etnea in cui appunto gli accumuli delle scorie vulcaniche sono rimasti evidenti lungo la superficie: una parola che ritroviamo anche nel toponimo Sciara del Fuoco, presso Stromboli, per designare una pendenza del terreno che dal cratere scende fra i lapilli fino al mare.

Ma da dove deriva questo lemma così tecnico? Stando al vocabolario Treccani, la sua origine sarebbe da rintracciare nella «sovrapposizione formale e semantica» di due diverse parole: la prima è šara, che in arabo designa proprio un terreno sterile e secco, mentre la seconda è il verbo latino flagrare, cioè ardere, che chiaramente fa qui riferimento alla presenza della lava.

Il sostantivo è stato spesso inserito nelle opere di celebri scrittori della Trinacria, uno fra tutti il verista Giovanni Verga, che nel romanzo I Malavoglia ci parla di una sciàra che arriva fino alle pendici del vulcano, già solidificata e ormai causa della distruzione di ogni forma di vita incontrata lungo il cammino.

Qui si incontrano i contrabbandieri che trasportano merce illegale sulle loro navi, ma è anche il luogo in cui Longa guarda l’orizzonte in attesa che il marito rientri dopo essersi avventurato in mare con la sua barca, la Provvidenza. «Le stelle splendevano lucenti anche sulla sciàra, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciàra», è peraltro una delle descrizioni più poetiche che le dedica l’autore catanese.

Una parola che ha quindi una lunga tradizione geografica e letteraria, e che ancora oggi fa parte del patrimonio lessicale della popolazione locale.

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