Questo contributo è parte di un dibattito scaturito dalla pubblicazione di una lettera aperta del rettore dell’Università di Catania, all’indomani di un tragico evento che ha coinvolto uno studente dell’Ateneo. In questo 2020 i più fragili tra di noi,  dentro e fuori il contesto universitario, rischiano di perdere la speranza nel futuro. Da dove ripartire?

I lettori possono intervenire con le loro lettere, che verranno pubblicate sul nostro sito, inviandole all’indirizzo redazione@sicilianpost.it

Ho letto molti articoli e lettere sull’Università in questo momento, sia alla luce di quello che abbiamo vissuto (una Università totalmente online) sia all’ombra dei terribili episodi di suicidi di studenti come me. Ci sono dei punti di questa situazione che non mi lasciano per niente tranquillo. Vedo da una parte i numerosi problemi concreti e le richieste di aiuto da parte di diversi studenti e studentesse, ma dall’altra vedo il possibile baratro del lamento e del discorso che rischia di chiudere tutta la questione con un “non c’è più niente da fare”. Ho capito che l’unico modo per provare a formulare un giudizio è partire da quello che accade a me, più che da una analisi in generale.

Mi sembra di vivere un’esperienza diversa in Università, rispetto agli interventi che mi è capitato di leggere. Anche se il momento è difficile e la difficoltà e la stanchezza nello studio si affacciano continuamente, sto sperimentando una possibilità di incontro e di apertura con i compagni di corso che non mi sarei mai aspettato. Stiamo provando a seguire le lezioni insieme, a confrontarci, a condividere gli appunti e a organizzare gruppi di studio (con alcuni di loro ho anche condiviso le scelte del piano di studi). Ne sta scaturendo un’avventura che non avrei mai ritenuto possibile.

Voglio subito dire che questa diversità che sperimento (che non è idilliaca: ha i momenti “no”, ha le sue difficoltà, incomprensioni e solitudini) non dipende da una mia particolare socialità. Tendenzialmente sono poco socievole, irruento e a volte anche troppo determinato su certi temi. Se questa avventura ricomincia anche in questo periodo è perché ho accanto delle persone che mi risvegliano lo stupore e l’attenzione per quello che mi accade nella vita. Quando dico “accanto” intendo che queste persone sono nell’orizzonte dei miei pensieri e della mia esperienza quotidiana perché sono presenti, anche quando non ci sono, per come mi vogliono bene, per come mi aiutano e per come vivono loro la loro stessa vita. Senza avere negli occhi, al presente, delle persone così, non mi interesserebbe nulla dello studio; paradossalmente, proprio il mio studio, la Filologia Moderna, sarebbe la più meccanica e inutile delle operazioni perché, a differenza di altre discipline più “quantitative”, non presenta sempre e univocamente i risultati del mio studio.

Ma scavando più a fondo: che me ne faccio della bellezza, della conoscenza, della storia, della filosofia, delle scienze, della fisica, della matematica, della medicina (e chi più ne ha più ne metta) se non c’è una ragione per vivere? Questo secondo me è il punto profondo, il mio nervo scoperto in questi mesi durissimi. Si può cercare di ignorarlo ma torna a galla, forse ancora di più in questo momento storico. Nella mia personale esperienza, non posso ripartire in nessun ambito se non si affaccia anche solo come intuizione la possibilità che c’è una strada per cercare il senso e la mia realizzazione. Non mi darei neanche una materia, anzi, non mi alzerei dal letto la mattina se non ci fosse questo minimo spiraglio di possibilità di senso.

Io, con un velo di scetticismo, dubito che questa possibilità di ricerca del senso sia nell’Università intesa come ambito sociale o luogo pubblico. Ma devo spiegarmi meglio: tutti gli ambiti sociali, anche l’Università, sono tali perché sono abitati da qualcuno. Per cui la domanda di ogni giorno per non scadere nel lamento è: chi, attorno a me, qui dove mi trovo, vive cercando il senso? Chi vive uno stupore e un interesse per la vita senza troppi discorsi? Se prendo sul serio questa domanda e intercetto qualcuno così, in un attimo sto seguendo quella persona e torno ad avere cura del luogo che vivo. Se non lo intercetto non sono calmo finché non lo trovo e tutto quello che accade mi provoca ancora di più questa domanda: chi osa cercare il senso?

So bene che il rischio più grande di quello che scrivo è che possa rimanere un discorso relativo: “per te è così ma per me non lo è, ognuno cerca il proprio senso”. Ma credo anche che questa obiezione contraddica i fatti: io, che non la penso come i colleghi e le colleghe che hanno scritto diverse lettere aperte (che ho letto anche qui, su Sicilian Post), io che non sono come loro, non credo di avere le stesse opinioni e non li conosco, ho però la medesima esigenza di autenticità e di senso nelle cose che faccio. Ho la stessa esigenza di non essere considerato un numero; di non vivere rattrappito in casa;  di allargare il mio orizzonte e di conoscere il mondo; di crescere sotto tutti gli aspetti della mia persona. In sintesi: abbiamo la stessa esigenza di vivere.

Mentre scrivo mi vengono in mente i Radiohead, che ho riscoperto di recente. In una loro bellissima canzone: Fake Plastic Trees, dopo una serie di strofe in cui chi canta accusa tutta la realtà di essere rotta, finta e fragile, arriva l’ultima strofa, secondo me di una potenza eccezionale, che dice: Lei sembra vera, ha il sapore di una cosa vera, il mio finto amore di plastica. Ma non posso fare a meno di sentire che potrei sfondare il soffitto se solo mi girassi e corressi.

Questa esigenza, che sentiamo forte e chiaro, è il centro gravitazionale da cui non possiamo prescindere. È impossibile prescindere non per volere nostro, ma perché siamo autenticamente umani e cerchiamo sempre qualcosa di autentico. Cosa impedisce a ciascuno di noi di tornare a costruire l’Università su questo?

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