Esattamente come ieri di “appena” 530 anni fa, la geografia del nostro mondo cambiava e insieme ad essa anche noi. Il 12 ottobre del 1492 Cristoforo Colombo sbarcava alle Bahamas, convinto di essere giunto in India. Non solo non seppe di calpestare quella che il cartografo Waldseemüller, ispirandosi ai resoconti dei viaggi di Amerigo Vespucci, chiamerà America, ma Colombo probabilmente non ebbe neanche contezza della portata epocale di quell’evento destinato a segnare la storia. Nel corso di mezzo millennio abbiamo interrogato la società, l’economia, l’arte, ma abbiamo chiesto al nostro pianeta che ne pensa della scoperta del Nuovo Mondo? La questione è tragicamente reale, almeno quanto lo è trascurata. La pensano così Simon Lewis e Mark Maslin che in Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene (Einaudi 2019) hanno analizzato le tracce lasciate nella geologia dall’arrivo di Colombo in quei luoghi vergini abitati da popoli che per 12mila anni erano rimasti separati dal resto del globo. Finché, appunto, non arrivarono gli europei. Cosa successe allora?

L’UOMO CAMBIA IL CLIMA. La ricongiunzione tra europei e nativi americani si rivelò subito catastrofica per i secondi. Febbre gialla, malaria, influenza, morbillo, polmonite, tifo, scarlattina, guerre di conquista, lavori forzati: questi fattori determinarono la scomparsa di 50 milioni di nativi americani. Cosa accade quando muore velocemente un così alto numero di esseri umani, agricoltori (è importante precisarlo), tale da causare un crollo sociale? «Il collasso di queste società portò alla riforestazione dei terreni agricoli in un’area tanto estesa che la quantità di anidride carbonica atmosferica assorbita dagli alberi in crescita fu sufficiente a raffreddare temporaneamente il pianeta». Secondo Lewis e Maslin, lo spopolamento delle Americhe ebbe quindi un impatto sul clima globale: dopo il 1492 infatti le carote di ghiaccio dell’Antartide mostrano una notevole e improvvisa diminuzione dell’anidride carbonica atmosferica, tendenza che continua a diminuire toccando il minimo nel 1610 per poi ricrescere. Per gli studiosi, questo basterebbe per individuare nella scoperta dell’America il momento di inizio dell’Antropocene, cioè dell’attuale era geologica in cui l’uomo, al pari di meteoriti ed eruzioni vulcaniche, interferisce sulle sorti del pianeta. A loro avviso, infatti, gli effetti della colonizzazione europea furono di fatto ben più profondi di quanto fino ad oggi si supponesse.

L’INIZIO DELLA GLOBALIZZAZIONE… «Duecento milioni di anni fa – scrivono ancora Lewis e Maslin –, tutte le terre emerse del pianeta erano unite e formavano il supercontinente Pangea, che poi si separò in diverse parti». A partire dai viaggi di Colombo, le rotte commerciali spostarono specie, animali e vegetali, da un continente all’altro e fuori dal loro contesto evolutivo, a volte anche involontariamente: le navi, ad esempio, caricando e scaricando acqua, permisero a diversi organismi di viaggiare. «Il rimescolamento globale degli esseri umani e delle loro malattie mortali è solo uno degli aspetti di un mescolamento biologico globale molto più ampio che lo storico Alfred Crosby ha chiamato scambio colombiano». Da quel momento abbiamo disegnato una nuova Pangea e impresso alla Terra una nuova traiettoria evolutiva. Basti pensare che l’annessione europea delle Americhe, fornendo energia alimentare e materie prime, fu il presupposto della Rivoluzione industriale inglese, che tanto ha influito sull’inquinamento e sul cambiamento ambientale.

…E DELLA PERDITA DI BIODIVERSITÀ.  Si determinarono quindi una serie di effetti concatenati. «Quando specie imparentate alla lontana entrano in contatto e si mescolano la diversità genetica va persa a scala globale. A livello degli ecosistemi, quelli separati da grandi distanze stanno diventando più simili. Al livello delle specie, le specie comuni stanno diventando ancora più comuni, spesso a scapito di quelle globalmente rare, il che significa che la diversità va persa». Secondo i due studiosi, «se osserviamo le piante e gli animali intorno a noi e consideriamo dove si sono evoluti originariamente, l’impressionante dominio umano sulla vita della Terra diventa evidente». Lo scambio colombiano ha così rivoluzionato agricoltura e alimentazione: «È difficile immaginare che prima del Cinquecento non esistessero le patate e i pomodori in Europa, il grano e le banane nelle Americhe, i peperoncini in Cina e in India e le arachidi in Africa». Non solo: gli agricoltori ebbero a disposizione una gamma più ampia di colture da impiantare in base alle condizioni più favorevoli. O più nefaste: «in Cina, per esempio, l’arrivo del mais permise di coltivare terreni asciutti, provocando nuove ondate di deforestazione e un grande aumento della popolazione». Uno shock per l’ambiente.

QUALE MODERNITÀ? Quello che emerge dall’analisi di Lewis e Maslin è un messaggio di straordinaria attualità e trascende la lettura mainstream per abbracciare quel fatidico evento in tutta la sua complessità.  «Se l’Antropocene è associato allo scambio colombiano, alla morte di 50 milioni di persone e agli inizi del mondo moderno, allora – concludono gli studiosi – si tratta di una storia profondamente imbarazzante di colonialismo e schiavismo in cui la nascita del modo di vivere capitalistico guidato dal profitto è intrinsecamente collegata al cambiamento ambientale globale a lungo termine. Ciò che facciamo gli uni agli altri è importante, come ciò che facciamo all’ambiente».

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