Il premio Nobel Salvatore Quasimodo nella rubrica “Il falso e il vero verde”, che tenne sul settimanale d’area socialista “Le Ore” dal 1960 al 1964, scriveva: «La parola “Festival” un tempo si poteva ascoltare serenamente: non oggi che scivola nel rischio ossessivo di diventare avvenimento d’importanza nazionale. Dire “Festival” è dire Sanremo e musica leggera, significa osservare le prime pagine dei quotidiani con titoli grandi come quando scoppia una guerra: “Festival atomico”, appunto, fanatismo di adulti e fughe di adolescenti, mancanza di sonno davanti al video di numerosa gente che il giorno dopo, fra uno sbadiglio e l’altro, tornerà a puntare su una nuova schedina Sisal o meno, abbinata alle canzoni in gara. La cittadina ligure è divenuta ancora più famosa con le canzoni, al contrario dei fiori, la psicosi ha sementi dorate».

Aveva visto giusto il poeta modicano: quelle sementi avrebbero fatto la ricchezza della città dei fiori. E non solo. Da 72 anni l’Italia si appassiona al Festival di Sanremo che ha prodotto quasi duemila canzoni ed ha visto alternarsi sul palcoscenico un migliaio di cantanti e cinquantasette conduttori. Con un indotto enorme. Per l’industria del turismo, innanzitutto. E poi per la musica, coinvolgendo oltre agli interpreti, anche gli autori, gli editori e i discografici. E dagli anni Ottanta per la Rai che ha trasformato il Festival della canzone italiana nell’appuntamento clou della stagione televisiva: l’Evento Unico Nazionale. Nazional-popolare, nel senso gramsciano-borgnano (da Gianni Borgna, il comunista che sdoganò il Festival). L’unità d’Italia l’hanno fatta “Lascia o raddoppia?” e il Festival di Sanremo. Anche Pippo Baudo, Albano, Romina e Toto Cutugno sono parte dell’identità nazionale.

Una storia italiana, che non ha riscontri nelle altre nazioni. Uno spettacolo che da 72 anni ripete un format rimasto, tutto sommato, sempre lo stesso. Come i cibi riscaldati ai raggi infrarossi, le canzoni strombazzate, le scenografie dilatate, l’immane orchestra, le pettinature fulgenti, le scollature o le farfalline stile “Colpo Grosso”, il gesticolare melodrammatico, gli scuotimenti sentimentali, le grida, gli sberleffi, i saltelli, gli acuti, i mormorii, gli sguardi birichini o assassini, si amalgamano insieme, con lo stesso odore e sapore rassicurante, fatto di nulla.

Nunzio Filogamo

La prima edizione fu nel 1951, quando il presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi ed esisteva ancora un ministero per l’Africa italiana. «Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate!» esclamò il palermitano Nunzio Filogamo la sera del 29 gennaio 1951, aprendo il primo Festival della canzone italiana. Una forte impronta siciliana che avrebbe segnato tutta la storia di Sanremo. Che si sarebbe identificato nell’apertura delle braccia di “Mister Volare” Domenico Modugno, “siciliano per necessità”, e nella falcata di Pippo Baudo, siciliano per nascita, sul palco dell’Ariston.

Ci fu una piccola crisi negli anni Settanta, i più ideologizzati: dal 1973 al 1980 il Festival fu ridotto a tre serate e la Rai trasmetteva soltanto la finale. La grande rinascita cominciò agli inizi degli anni Ottanta. Era il 7 febbraio 1981, Alice trionfava a sorpresa con Per Elisa, canzone scritta, tra gli altri, da Franco Battiato. Un altro siciliano. E nel 1987, in una edizione condotta da Pippo Baudo, quando vinse il Trio Morandi-Tozzi-Ruggeri, si toccò una vetta mai più ripetuta: 68,71 di share.

Ciclicamente data per morta, la manifestazione canora continua anno dopo anno a calamitare l’attenzione dei commentatori, dei media e di una parte considerevole di italiani, almeno nella settimana del suo svolgimento. Sino ai nuovi record toccati nell’era della televisione 2.0 dalle tre edizioni di Carlo Conti e dalla prima di Amadeus (nelle cui vene scorre sangue siciliano).

L’Ariston, una multisala qualunque, con poltroncine rosse, che una volta l’anno abbandona la programmazione cinematografica per diventare il mitico luogo del massimo spettacolo italiano, è l’epicentro di questa Italia canora e televisiva. Gli scenografi e le telecamere trasformano il suo modesto palcoscenico in un immenso antro delle meraviglie o degli orrori, che per una settimana assurge a una sorta di Moloch che proietta volti, immagini, classifiche, e sotto il quale sfilano cantanti, ospiti, vallette. Alimentando sogni, dibattiti, polemiche.

Per sette giorni, il Festival è al centro dell’attenzione di tutta la nazione. Molti ne parleranno male, lo criticheranno, lo condanneranno. Ma tutti lo guarderanno (anche chi giura di non averlo visto). E basteranno pochi mesi perché, contro ogni logica, si ricominci a parlarne, appassionatamente.

Sanremo si pone come la sospensione del tempo, plaid idealmente gettato e rincalzato sulle gambe del Paese. Rassicura, riscalda, conforta. Una sociologia dello spettacolo avrebbe da lavorare molto sulla composizione della sterminata platea televisiva che ancora oggi – nell’era di Internet e della proliferazione dei canali tv – non si perde un appuntamento con questa tisana, e con il suo tepore sdrammatizzante. Una platea che può contare su uno “zoccolo duro” rappresentato dal Sud, con Sicilia, Puglia, Basilicata e Campania in testa.

Nell’edizione del 2015, quando vinse Il Volo, tenorile trio formato da due siciliani e un abruzzese, un ruolo importante lo ha avuto l’Isola, che rappresenta il 61,50% di share del Festival. Nella serata finale, davanti al televisore, oltre un milione di siciliani ha seguito per quattro ore lo spettacolo sul palco dell’Ariston e, al momento delle votazioni, quando si è registrato il picco di share, era il 72,7%. È forse anche questo il segreto del successo di molti concorrenti siciliani nei concorsi canori che fanno ricorso al televoto (nel 2015 anche il vincitore della sezione “Nuove Proposte” arrivava dall’Isola: il modicano Giovanni Caccamo).

Anche quest’anno, nell’edizione numero 72 che comincia martedì 1 febbraio, la Sicilia avrà un ruolo di protagonista. Amadeus, genitori palermitani, è per la terza volta il direttore artistico e conduttore. Torna anche il suo amico “Ciuri”, ovvero Fiorello. Lo showman di Augusta ha preferito evitare il ruolo di co-protagonista, preferendo quello più tranquillo e libero da responsabilità del battitore libero. Meno pregnante, invece, il contributo musicale: in gara fra i 25 big scenderanno in campo la coppia “queer” siculo-toscana La Rappresentante di Lista (lei, Veronica Lucchesi, viareggina; lui, Dario Mangiaracina, palermitano) e Giusy Ferreri, palermitana soltanto di nascita. Fra gli ospiti, una presenza quasi fissa del Festival, ovvero l’attore Nino Frassica, sul palco dell’Ariston per presentare la nuova edizione della fiction “Don Matteo” senza Terence Hill e con Raoul Bova. Ad autopromuoversi anche la lentinese Anna Valle, anche lei protagonista di una fiction Rai. Con curiosità e interesse è atteso l’omaggio che Sanremo tributerà a Franco Battiato.

Senza dimenticare la Sicilia che opera dietro le quinte, come l’indispensabile direttore di palco Pippo Balistreri, palermitano di Aspra (oggi frazione di Bagheria), che dal 1981, fatta eccezione per le tre edizioni di Aragozzini, ha organizzato il traffico di conduttori, cantanti e ospiti all’Ariston. O come i musicisti che fanno parte dell’Orchestra del Festival: la violinista messinese Luisa Grasso, il contrabbassista Claudio Piro di Assoro (Enna), il violinista Gaspare Maniscalco, corleonese di Chiusa Sclafani (Palermo).

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Laureato in Lettere moderne. Giornalista professionista. Ha collaborato con Ciao2001, Musica Jazz, Ultimo Buscadero, Il Diario di Siracusa. È stato direttore del bimestrale Raro! e caposervizio agli spettacoli al quotidiano "La Sicilia". Nel 2018 ha curato il libro "Perché Sanremo è (anche) Sicilia”. Nel 2020 ha scritto “Alfio Antico. Il dio tamburo” pubblicato da Arcana.