Se in un primo momento il De Confessore per coro e orchestra sembra restituire l’idea di una Provvidenza cristiana a cui affidarsi solidamente, la celebre Sinfonia n. 5 rappresenta la lotta titanica fra l’uomo e il divino in cui ogni certezza è rimessa in discussione.  Applausi scroscianti per uno degli appuntamenti più dialettici della stagione

Due diversi modi di relazionarsi con il sacro, quelli che ha proposto il Teatro Massimo Bellini di Catania il 24 maggio scorso. Il concerto sinfonico-corale diretto dal maestro Elio Boncompagni ha proposto infatti il Vesperae solennes de confessore in do maggiore per soli, coro e orchestra (K339) di Mozart e a seguire la celebre Sinfonia n. 5 in do minore (op. 67) di Beethoven, in una serata di primavera che è parsa illuminarsi non appena si sono spenti i fari in sala.

Da un lato, il coro diretto da Luigi Petrozziello e i quattro cantanti Silvia Dalla Benetta (soprano), Rachele Raggiotti (contralto), Klodjan Kaçani (tenore) e Sinan Yan (basso) hanno accompagnato l’orchestra in una delle ultime composizioni di genere sacro scritta dal compositore austriaco nella città natale di Salisburgo, evocando con trasporto attraverso cinque salmi e un cantico l’idea di una fede solida, specchio di una disposizione d’animo composta e al tempo stesso armoniosa. Il rapporto fra l’uomo e l’Eterno è cristallino, senza contrasti, e si appoggia ora a un contrappunto severo degli archi, ora a un vibrante assolo del soprano.

L’idea di destino che sembra permeare di sé il capoluogo catanese è dunque in un primo momento fiduciosa, rigorosa, culminante in un Magnificat che realizza pienamente il concetto di Provvidenza in termini cristiani grazie anche a una direzione orchestrale vivace, scrupolosa e piuttosto sostenuta. Dopodiché, una brusca sterzata sottolinea una transizione non solo temporale (il De Confessore è del 1779, la Sinfonia n. 5 del 1804-1808), ma anche e soprattutto del pensiero e dei costumi. Un neoclassicismo sempre più essenziale e meno baroccheggiante, che nei temi religiosi riusciva ancora a trovare un centro propulsore, sta già facendo spazio a un romanticismo travagliato, pronto a mettere ogni cosa in discussione.

È così che, dopo una breve pausa di “transizione”, il famosissimo motivo di quattro note del genio tedesco disegna all’interno del teatro un enorme punto interrogativo, una lotta con il divino che mantiene una dimensione profondamente sacra, seppure ormai svincolata dalla composizione liturgica in senso stretto. «Afferrerò il destino per la gola, di certo non riuscirà a piegarmi e a schiacciarmi completamente», scrisse non a caso Beethoven a Wegeler nel 1801, riferendosi probabilmente anche all’opera cui avrebbe a breve iniziato a lavorare. Cambia dunque la posizione dell’uomo nei confronti del suo interlocutore metafisico e cambia l’idea stessa di Fato: il destino si è trasformato in un potenziale nemico, l’individuo in un titano solitario e bisognoso di risposte.

Nonostante questo, il concerto non perde neanche per un attimo la sua armonia: semplicemente, la trasforma. La certezza che aveva ispirato il Dixit Dominus e il Confitebor tibi Domine è soppiantata da un Allegro con brio in grado di scuotere perfino il più glaciale degli esseri viventi, il dinamismo dell’Andante con moto si lascia alle spalle il tono quasi elegiaco del Laudate pueri Dominum del coro precedente, trascinando sempre di più la platea da una parte e i musicisti dall’altra parte in una riflessione metamusicale e silenziosissima, che tuttavia non può non serpeggiare in sala rimbalzando dagli archi alla platea, dai tromboni ai palchi, dalle percussioni alla galleria.

Il destino, infatti, ormai ha bussato alla porta attraverso il suo motivo sonoro. Si è scavato una strada fino al cuore dell’uomo, lo ha travolto e ha rischiato di lasciarsene strozzare. Finché aleggia intorno e dentro di lui, però, non smette di stuzzicarlo con la sua aria di scherno, con la sua impenetrabile tragicità. Lo ricordano ora i violini e ora le viole, che si rispondono a vicenda in un dialogo serrato e disperato fra dei pianissimo e fortissimo a distanza molto ravvicinata. E lo enfatizzano poi il terzo e il quarto movimento, con un Allegro che comincia dal dramma edificato da violoncelli e contrabbassi pronti a riprendere il tema dell’Allegro con brio, per poi sfumare gradualmente in un sospiro di sollievo in sol e infine in un esplosivo do maggiore nell’Allegro-presto conclusivo, raggiunto con sapiente eleganza dalla bacchetta di Boncompagni. L’uomo non si è ancora liberato dalla ruota degli eventi, ma quantomeno non è rimasto vittima del Dio che fino a poco tempo prima esaltava a gran voce, portando avanti il proprio incontro-scontro con l’Assoluto anche dopo che gli applausi scroscianti hanno fatto calare il sipario su un appuntamento tra i più dialettici della stagione concertistica in corso al Bellini di Catania.

 

 

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