Dai Romani ai Normanni: ecco perché in Sicilia non si dice nascondere ma “ammucciàri”

«Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto», scriveva Italo Calvino. Una grande lezione di letteratura, e forse di vita, che, se fosse stata ripensata da un altro grande scrittore del Novecento come Andrea Camilleri, avrebbe probabilmente visto il verbo nascondere sostituito da un più peculiare ammucciàri (o mmucciàri).

In siciliano, infatti, il verbo che indica l’azione di togliere un oggetto alla vista, per metterlo in un posto ben protetto e difficile da rintracciare, ha un’antica tradizione linguistica che ancora oggi si riscontra spesso tanto nella parlata di ogni giorno quanto nella narrativa di chi usa con sapienza le incursioni dialettali per dare maggiore pregnanza a una scena ambientata nella Trinacria.

La sua etimologia, fra l’altro, è condivisa con diverse altre aree del Sud Italia: si vedano il calabro ammucciàri, il lucano ammuccia’ o il pugliese ammuccie’, giusto per citarne tre su larga scala. Per tutti, l’origine è da far risalire al normanno mucher (cioè nascondere), evolutosi poi nell’antico francese mucer/mucher e diventato oggi musser nella lingua d’Oltralpe, e che a sua volta veniva dal celtico *muciare, arrivato dalla Gallia fino alla lingua latina popolare.

Da allora, il termine (che esiste anche nella forma riflessiva ammucciàrisi, per nascondere sé stessi) si è diffuso nella regione finendo per designare sia il gioco conosciuto nel nostro Paese come nascondino, e che sull’isola diventa quindi ammùccia-ammùccia (o anche ammucciarèddu), sia il risvolto di un’azione compiuta di soppiatto attraverso la locuzione avverbiale ammucciùni (o a mucciùni e mmucciùni) entrambe usate in modo trasversale da una provincia all’altra.

E che dire dei numerosi proverbi legati a questo lemma? C’è chi prova a nascondere inutilmente il sole con un setaccio per la farina, cercando quindi di ammucciàri ‘u cielu ‘ccu crivu con scarsi risultati, e c’è poi un detto secondo cui cu s’ammùccia, zoccu fa, è signu chi mali fa, che in altre parole invita a non fidarsi di chi opera nell’ombra, perché il fatto stesso di celare qualcosa, a prescindere da ciò che fa, è un cattivo segno.

Per non parlare dell’espressione amùri, biddrìzzi e dinàri su tri cosi ca ‘un si ponu ammucciàri: amore, bellezza e soldi sono tre cose impossibili da nascondere, ci rammenta la saggezza popolare, e se è lei a dirlo da tempo immemorabile faremmo bene a fidarci sulla parola…

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Traduttrice di formazione, nonché editor, correttrice di bozze e ghostwriter, Eva Luna Mascolino (Catania, 28 anni) ha vinto il Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie" (edito da Divergenze), tiene da anni corsi di scrittura, lingue e traduzione, e collabora con concorsi, festival e riviste. Ha conseguito il master in editoria di Fondazione Mondadori, AIE e la Statale di Milano, e ora è redattrice culturale - oltre che per Sicilian Post - per le testate ilLibraio.it e Harper’s Bazaar Italia. Lettrice editoriale per Salani, Garzanti e Mondadori, nella litweb ha pubblicato inoltre più di 50 racconti.

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