Dall’harem al salotto: la curiosa storia delle pantofole in Sicilia

In Sicilia chi cammina in pantofole sta usando le cosiddette tappìne, termine del dialetto siciliano che affonderebbe le sue radici addirittura nel greco antico. Caratteristica principale delle ciabatte, infatti, a prescindere dal loro modello e della stagione in cui vengono indossate, è l’assenza di tacco a cui si deve la loro provenienza dalla parola tapeinòs, che non a caso due millenni fa aveva già il significato di “basso, a contatto con il terreno”.

Fatta questa premessa, però, la formazione di termini derivati dalla tappìna non è semplice come sembrerebbe, dal momento che un appellativo come tappinàra non è di fatto sinonimo dell’italiano pantofolaia. Con questo epiteto ci si riferisce piuttosto, nella Trinacria, a coloro che svolgono la professione di prostitute, attraverso un salto logico non così immediato da individuare e da capire.

Per scoprirne di più dobbiamo tornare ancora una volta indietro nel tempo, anche se nel caso specifico a venirci in aiuto non è tanto la cultura classica, quanto piuttosto quella araba: secondo le usanze tramandate fino ai nostri giorni, in genere il sultano all’interno del suo harem usava per pantofole per motivi igienici, obbligando le sue concubine a fare altrettanto e associando queste calzature proprio a un simbolo di sottomissione, che durante la dominazione sicula potrebbe essersi diffuso anche sull’isola.

Ma non è tutto, se consideriamo che nel frattempo altre ipotesi sono state avanzate sulla questione in riferimento a un’epoca più recente, come quella della dominazione spagnola nell’Italia meridionale. Rifacendoci a tale teoria, l’origine del soprannome risalirebbe all’ordine dato dai viceré alle prostitute di munirsi di tappìne per rendersi riconoscibili agli occhi dei loro clienti, abitudine mantenuta inoltre per via del fatto che lavorare in pantofole facilitava loro in compito nei postriboli presenti sul territorio.

Da allora, la curiosa associazione di idee è stata mantenuta ed è arrivata fino a noi, conferendo alle tappìne una sfumatura particolarmente insolita e a lungo dibattuta, sulla quale sarebbe forse necessario riflettere più a fondo di quanto non si faccia di solito nella vita di tutti i giorni.

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Traduttrice di formazione, nonché editor, correttrice di bozze e ghostwriter, Eva Luna Mascolino (Catania, 28 anni) ha vinto il Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie" (edito da Divergenze), tiene da anni corsi di scrittura, lingue e traduzione, e collabora con concorsi, festival e riviste. Ha conseguito il master in editoria di Fondazione Mondadori, AIE e la Statale di Milano, e ora è redattrice culturale - oltre che per Sicilian Post - per le testate ilLibraio.it e Harper’s Bazaar Italia. Lettrice editoriale per Salani, Garzanti e Mondadori, nella litweb ha pubblicato inoltre più di 50 racconti.

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