Esattamente due anni, nelle prime ore del pomeriggio, la persona con cui ho comprato casa un mese fa mi ha detto: «Secondo me, dovremmo metterci insieme». Con un’emozione e una semplicità che, mentre eravamo vicini e restavamo occhi negli occhi a sorriderci, mi ha fatto commuovere.

Era la prima volta, in 26 anni, in cui non ero io per prima a sbilanciarmi in amore. E oggi che sono passati due anni, e che quell’amore ci ha fatto poi sbilanciare insieme una miriade di volte, senza mai perdere l’equilibrio, ripenso a quel momento associandolo a una delle mie scene preferite da Anna Karenina di Lev Nikolaevič Tolstoj, che giusto qualche mese prima di conoscere “lui” avevo letto nella traduzione di Claudia Zonghetti per Einaudi.

Nella mia edizione, la scena si trova alle pagine 434 e 435: non saranno le più sopraffine che Tolstoj abbia mai scritto, ma per me sono le più dolci, le più grandi. Perché, fra le righe, rivedo la me di 14 anni che si preparava a dichiararsi per la prima volta (e che poi lo avrebbe rifatto, ancora e ancora, sempre lei per prima, con un’unica eccezione fino a oggi) con un gioco simile, con un indovinello.

Adesso non ricordo con precisione cosa avessi architettato, ma pure in quel caso c’erano le iniziali di alcuni termini da combinare per creare una frase – per creare la frase. Proprio come accade a Kitty e al suo Lëvin, che non appena la reincontra dopo tanti mesi di lontananza disegna delle lettere non casuali sul panno del tavolo da gioco, usando il gessetto.

Q m r c e i i i q p i o s?. Che volevano dire: «Quando mi rispondeste che era impossibile, intendevate in quel preciso istante o sempre?». Sembra inverosimile perfino a Lëvin che Kitty riesca a interpretare il suo messaggio, eppure il miracolo accade: la giovane capisce, risponde, chiarifica. Proprio com’è alla fine era successo a me, nella vita vera.

Da allora ci sono state tante altre me a prendere la parola in maniere simili, con acrobazie più o meno complesse, perché l’amore per tutte queste “me” non ha mai smesso di essere un enigma da decifrare, o quantomeno da intuire. Un punto interrogativo da scrivere col gesso, tremando. Una risposta che da fuori arriva sempre sbiadita, strana, e che poi si deve ricomporre in una dimensione intima e solitaria. E tuttavia, ragionando sul capolavoro di Tolstoj e su questo mio secondo anniversario, ho capito che era una maniera singolare di innamorarsi, quella a cui ero abituata. Una maniera che aveva in sé il divertimento e la serietà, il dubbio e l’accoglienza, la matita e la gomma. L’angoscia e la delicatezza.

Ma una maniera che, nel frattempo, un colpo di spugna ha gentilmente cancellato in un pomeriggio di ottobre simile a oggi, lasciando che frasi e stati d’animo si manifestassero con semplicità, con libertà, con chiarezza. Un po’ come accade alla fine a Lëvin, nella stessa scena di sopra, nel momento in cui poi «non riusciva a tradurre le lettere in parole, ma negli occhi di Kitty, splendidi e raggianti, lesse tutto ciò che aveva bisogno di sapere».

Perché forse è questo che ci può insegnare la letteratura, come anche la vita: che più passa il tempo e meno abbiamo bisogno di sotterfugi, di paure, di schermi per le emozioni. Che, anche se ci vogliono quasi 900 pagine – o quasi 30 anni – per arrivare a scoprire il finale destinato a noi, e anche quando non dovesse rivelarsi come ce lo aspettavamo, l’importante è arrivarci con la consapevolezza che «ci sono tanti generi d’amore quanti cuori», se non di più, e che ognuno di questi potrebbe stupirci e trasformarci nelle maniere più impensabili.

Provare per credere – o, in assenza della giusta opportunità – leggere Anna Karenina tutto d’un fiato.

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