Qualche settimana fa, in occasione del nostro anniversario, il mio compagno ha organizzato per me una crociera a sorpresa. Era la prima della mia vita, e l’abbiamo trascorsa lungo il Mediterraneo, toccando le coste italiane, croate, montenegrine e greche. Un’esperienza unica nel suo genere, che soprattutto negli ultimi giorni trascorsi fra Corfù e Zacinto, nelle isole ioniche, mi ha fatta sentire in un mondo a sé stante.

Anzi, per la precisione, la sensazione è stata «quella di essere ospite di un frammento ma anche di un intero. Una comunità più piccola all’interno di una comunità più ampia». Una presa di coscienza a cui, pur avendo io origini siciliane, non ero mai arrivata in precedenza. Forse perché la gente del posto continuava a parlare di sé come di un microcosmo a parte, sempre distinto dalla mainland, o perché i confini naturali erano così netti ed evidenti da far sembrare l’arcipelago «distaccato dal continente», anche se allo stesso tempo nei secoli «le sue isole sono state luogo di scambio, incontro, commistione».

E, se vi state chiedendo da chi abbia preso in prestito queste osservazioni, vi stupirà forse scoprire che si tratta di una riflessione firmata Francesca Scotti riferita non al mondo ellenico, bensì a quello nipponico. Shimaguni. Atlante narrato delle isole del Giappone, si chiama così il volume che ha pubblicato di recente per Bompiani, con le delicate e immersive illustrazioni di Uragami Kazuhisa, e dal momento stesso in cui ho sbirciato l’introduzione ho capito che era un testo con tanto da dirmi, specialmente ora che per via di una curiosa coincidenza avevo vissuto sulla mia pelle delle impressioni tanto simili a quelle che l’autrice dedicata al Giappone.

Certo, nel mio caso si è trattato di un episodio durato pochi giorni e approfondito solo in parte, mentre in Shimaguni l’idea è quella di sviscerare l’essenza di queste isole facendosi guidare da spiriti che possiamo chiamare per nome, e identificare in Natura, Devozione, Battaglia, Assenza e Tradizione. Cosicché, forse è perfino superfluo dirlo, il viaggio in compagnia di Francesca Scotti è stato più lungo, più denso, più sorprendente.

Magari non assaporato in prima persona, d’accordo, e però sempre pronto a straripare dalle pagine e ad abbracciarmi con la sua tridimensionalità, con i suoi odori, con i suoi canti antichissimi, con le sue contraddizioni. Mi ha restituito l’ebbrezza di scoprire il mondo da vicino, avvicinandosi gradualmente alla costa per spiarne le curve, gli spigoli, i sottili cambiamenti, con l’intento finale di appoggiare il piede sulla terraferma e sapere che il bello deve ancora cominciare.

E ci è riuscita – questo è interessante da segnalare – con un approccio molto poetico e pragmatico al tempo stesso, che non rinuncia alla veridicità e al dettaglio mentre intanto ci trasporta fra impressioni, ricordi, domande. Un po’ come se fossimo saliti anche noi su una nave e, senza accorgersene, avessimo preso il largo, cullati non dalle onde ma dalle parole, non (solo) dalla geografia ma dall’alchimia di luoghi e culture, di segni e simboli, in un mare di storie e di desideri che intrecciano la dimensione individuale con quella collettiva.

Perché il mare – tanto del Giappone come della Grecia, tanto dei posti più vicini a noi quanto di quelli più remoti – resta una presenza «che avvolge, abbraccia, forse in alcuni casi fin troppo stretto, ma che può anche portare lontano. Mare come confine, mare come luogo. Mare come isolamento, mare come contatto e apertura al mondo». Tant’è che, ci spiegava la nostra guida in Montenegro, la gente che vive negli isolotti a nord del Paese è solita dire che, se con un dito tocchi il mare, stai toccando d’un tratto tutta la Terra.

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