Oggi che inauguriamo il ritorno della stagione estiva, inizia in Sicilia un periodo particolarmente importante per il cosiddetto atturramèntu, che con le giuste accortezze e attenzioni può essere sfruttato a vantaggio di chi si occupa di prodotti di genere alimentare.

L’atto di atturrari, infatti, così come riportato nel Nuovo vocabolario Siciliano-Italiano a cura di Antonino Traina, consisterebbe in italiano nel «porre le cose al fuoco sì che secchino e non ardano né si cuociano; abbrustolire». Un’operazione che potremmo dunque tradurre come tostare, e la cui storia etimologica riserva almeno una sorpresa.

L’ipotesi più accreditata al riguardo è che il verbo del dialetto siciliano sia da ricondurre allo spagnolo torrar, che non a caso vuol dire arrostire e che a sua volta deriverebbe dal latino torreo, che anticamente aveva proprio il significato di disseccare al sole. Ecco perché a essere atturràti nella Trinacria sono per esempio il pangrattato e le arachidi, ma anche cibi quali le bruschette (qui da intendersi piuttosto come abbrustolite).

Il termine non è da confondere con l’apparentemente simile attturrunàtu, che invece sta a indicare un cibo o una bibita fredda, e che infatti si utilizza soprattutto nel palermitano per parlare di una birra ghiacciata. A prima vista lontano dalle valenze semantiche delle quali abbiamo parlato finora è invece l’atto di una persona che ne attùrra fastidiosamente un’altra, e che a dispetto di quanto potremmo pensare è la stessa voce verbale di cui sopra.

Da intendersi com’è evidente in senso figurato, infatti, atturàri qualcuno è sinonimo di infastidire, insistere. Il motivo è presto detto: chi ha la tendenza a disturbare la gente intorno a sé è considerabile uno scocciatore, una persona che tedia le altre, e che dunque a modo suo le secca come farebbe il troppo sole.

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