Alcuni mesi fa hai profetizzato questa invasione come conseguenza della situazione afgana e di una percepita debolezza dell’Occidente. Al tempo stesso, quest’ultimo ha risposto con decisione a questa azione militare. Putin ha fatto male i propri calcoli? Qual è la connessione tra le due cose?
«Bisogna partire dal presupposto che in Afghanistan gli americani hanno abbandonato completamente una popolazione sulla quale avevano un controllo assoluto, quasi coloniale, e alla quale avevano fatto delle promesse, anche a fronte di investimenti miliardari. Così, mentre noi liquidavamo la questione un po’ alla svelta, alcuni soggetti l’hanno letta come la prova dell’indebolimento sempre più rapido e irreversibile del controllo statunitense sul mondo. Putin, in questo senso, è stato il più rapido: dopo essersi fatto forza delle esperienze in Donbass e in Crimea, rispetto alle quali nessuno aveva detto niente, ha pensato che questo fosse il momento giusto per colpire gli USA, i quali si mostrano come un paese senescente e poco reattivo».

Quali altri paesi, dunque, giocheranno questa partita?
«Credo sia evidente che Erdoğan voglia riconquistare l’impero ottomano, anche se forse, allo stato attuale, non ha ancora le spalle abbastanza larghe per farlo. Dall’altra parte c’è la Cina: il prossimo bersaglio sarà Taiwan. Il punto è che questi “nuovi imperi” vogliono riconquistare le loro colonie».

«Putin vuole mostrare al mondo che il suo paese non è più l’URSS del 1989, ma una potenza militare globale»

È questo, quindi, ciò che vuole davvero Putin? Riconquistare la “colonia” Ucraina?
«In realtà il suo scopo è ottenere attraverso l’Ucraina una attestazione della necessità di riequilibrare i rapporti di forza in Europa. Putin vuole mostrare al mondo che il suo paese non è più l’URSS del 1989, ma una potenza militare globale in grado di sedersi a trattare con gli Stati Uniti, di vantare un esercito moderno e una presenza in luoghi strategici come la Siria e l’Africa. Oltre naturalmente l’arsenale delle vecchie bombe atomiche».

Ma è davvero plausibile lo scenario di una guerra nucleare?
«No, non credo. Le dinamiche che si propongono sono simili a quelle della Guerra fredda, durante la quale, a fronte di continui conflitti tra URSS e USA, i due paesi avevano comunque chiaro quali fossero i limiti da non valicare. La novità stavolta è che il teatro di tutto questo è l’Europa. Ciò determina rischi maggiori rispetto a un conflitto in Etiopia o in Vietnam, ma, nonostante ciò, quando gli americani dichiarano esplicitamente che non interverranno con soldati o con l’istituzione di una “no-fly zone” è perché hanno chiaro dove si andrebbe a finire. Dall’altra parte, Putin sta elevando il livello della violenza in Ucraina per apparire maggiormente temibile agli occhi dell’Occidente, ma anche lui è consapevole che il rischio legato al nucleare è il medesimo dell’epoca di Kennedy e Chruščëv».

È per questo che in Ucraina non sono state colpite molte infrastrutture di telecomunicazione?
«Se l’esercito russo avesse voluto, un minuto dopo l’inizio della guerra l’Ucraina avrebbe potuto essere stata tagliata fuori dal mondo, come è avvenuto in Siria. Il punto è che Putin vuole che tutti vedano cosa è in grado di fare. Allo stesso tempo sono stati colpiti obiettivi come un teatro o una fabbrica di scarpe. Perché, se non per dar mostra delle sue capacità distruttive?»

Domenico Quirico Illustrazione di ARGO | fb.com/argoimago

Continuando così, allora, Kiev farà la fine di Aleppo?
«Molti di coloro che in questi giorni parlano nelle trasmissioni televisive, le guerre le hanno guardate solo al cinema, io gli effetti di quelle di Putin li ho visti con i miei occhi. Quella in Siria è stata la sua Guernica, e lui l’ha usata esattamente come avevano fatto i tedeschi nel ‘36: per testare l’efficacia dei sistemi di combattimento. Ha usato la città come fosse un poligono di tiro, ma al posto delle figure di cartone c’erano persone vive e ha annientato centri urbani di milioni di abitanti. I bombardamenti di Kiev, Odessa, Mariupol sono molto lontani da quanto è accaduto ad Aleppo, ma il rischio – se altri non cederanno alle sue richieste di ridistribuzione del potere in Europa – è che possano subire la stessa sorte: annientate in modo matematico, quartiere per quartiere, sezione per sezione, quadrato per quadrato. L’altro ieri l’esercito russo ha iniziato ad utilizzare l’artiglieria da 122mm, lo strumento con cui la città può essere ridotta a brandelli. Poi arriveranno quelli che devono ripulire, che non saranno nemmeno i soldati russi, ma dei macellai che in questo si sono specializzati, come i ceceni o i siriani».

In una recente intervista al nostro giornale, lo scrittore russo Nicolai Lilin, pur condannando la guerra, ha sottolineato come le motivazioni che Putin ha addotto per l’invasione dell’Ucraina fossero quelle della denazificazione del paese. Sono solo pretesti, o bisogna approcciare questo concetto in maniera più critica?  
«Chiaramente, dal momento che c’è stata un’invasione, Putin ha fatto in modo che qualsiasi discorso sulle provocazioni diventasse puramente teorico od ozioso. Tuttavia, non condivido l’idea di presentare gli ucraini come tutti indifesi. Da giornalista ho seguito Maidan, e inizialmente mi ero entusiasmato all’idea di questi giovani che volevano cambiare il mondo per costruirne uno che non avevano mai avuto. Tuttavia, esattamente come è accaduto con le primavere arabe, vi è stata una rapidissima degenerazione. I gruppi della destra ucraina, di stampo nazista, nazionalista e profondamente antisemita, che pure erano presenti a Maidan come minoranza, hanno progressivamente preso piede perché erano i più armati, violenti e decisi. Accade sempre così: coloro che fanno le rivoluzioni per degli ideali e che vengono uccisi dai poliziotti finiscono nelle retrovie, mentre i più feroci finiscono per diventare avanguardie».

Ma qual è la reale rilevanza di queste frange neonaziste nella società Ucraina?
«Diciamo che elettoralmente parliamo di un 4 o 5%. Tuttavia queste squadracce, nel caso della guerra del Donbass, sono diventate dominanti. E proprio per questo sono state integrate nell’esercito ucraino, il quale necessitava maggiormente di elementi spregiudicati e violenti rispetto al povero impiegato costretto a combattere in trincea contro i russi, e che invece avrebbe voluto solo andare a casa e sopravvivere. Putin utilizza questa situazione come elemento di propaganda, ma ciò non toglie che dobbiamo stare attenti a chi aiutiamo e non contribuire alla trasformazione della società ucraina, facendola diventare altro. In Siria, anche se non ad opera nostra, sono scomparsi i siriani e sono rimasti i jihadisti. Non vorrei che questo accadesse anche in Ucraina».

«Sono abbastanza convinto che dietro certe “legioni straniere” ci siano anche membri  delle forze speciali britanniche e americane»

In che modo la presenza di queste figure potrebbe influenzare le decisioni di Zelensky nella ricerca di una trattativa di pace?
«Diciamo che il rischio che corre Zelensky, qualora andasse verso la neutralità, è quello di essere abbattuto dall’ala estremista che, in quanto la più efficace a combattere, tiene in piedi la sua resistenza. D’altro canto, le guerre vanno verso degli assoluti, per cui i più radicali, come in una sorta di selezione naturale, diventano quelli che prendono in mano la situazione. Ciò vale anche sul fronte russo, sebbene la struttura del potere putiniano sia abbastanza particolare».

In questo conflitto l’Europa potrebbe essere la vera chiave di volta?
«L’Europa avrebbe potuto avere un ruolo importante se per l’ennesima volta non avesse deciso di identificarsi e appiattirsi sulla Nato, e quindi sulle posizioni americane. Avrebbe dovuto denunciare l’attacco russo ma nello stesso tempo mantenere dei canali aperti con Putin e cercare di portarlo a un negoziato. Invece si è autoesclusa. Prendiamo ad esempio la diplomazia italiana: grazie alle frasi di un ministro degli esteri che non sa in che mondo vive, essa non metterà più piede a Mosca per i prossimi vent’anni, a meno che Putin venga abbattuto e al potere salga Naval’nyj. Non dico che l’Europa dovesse inchinarsi all’atto di violenza di Putin, ma avere maggiore consapevolezza del fatto che alla fine devi sempre parlare con lui per evitare che il guaio diventi più grosso. Invece siamo diventati dei manager di ritirate, organizziamo esodi e migrazioni e non andiamo più alle cause delle medesime, anzi a volte li provochiamo. Questo dovrebbe interrogarci con urgenza».

Quali condizioni sarebbero allora necessarie per arrivare alla pace?       
«Se si arriverà a un accordo, ciò accadrà perché i veri protagonisti di questa vicenda insieme ai russi, ovvero gli americani, avranno valutato che a conti fatti la pace conviene. Al momento però c’è il rischio che qualcuno a Washington abbia immaginato di poter usare l’Ucraina come un Afghanistan alla rovescia. Che abbia cioè pensato che se da un lato un intervento militare è da escludere per scongiurare la terza guerra mondiale, dall’altro alimentare la resistenza con armi e forse anche con personale – in quanto sono abbastanza convinto che dietro certe “legioni straniere” ci siano anche membri  delle forze speciali britanniche e americane – possa portare a un aumento tale dei costi della guerra per i russi da far sì che il contratto che Putin ha con il suo popolo, ovvero quello di accrescere il suo status di potenza, si incrini e che quindi qualcuno al Cremlino possa farlo fuori. Quello che considero immorale e illecito è proprio usare gli ucraini come fossero una leva umana, carne da cannone, per cercare di mettere Putin nei guai. Credo che a qualcuno l’idea sia venuta e la si stia già attuando».

«L’Isis quattro giorni fa ha nominato il nuovo califfo e la notizia è passata in sordina. Quando tutto questo sarà finito ci renderemo conto che sono successe cose tremende a cui non abbiamo prestato la minima attenzione»

Intanto a pagare le spese di tutto questo sono sempre i civili, anche nella Russia soggetta alle sanzioni occidentali.
«Questo è un altro dei temi su cui ho cercato di puntare una piccola riflessione. L’oligarca se ne frega delle sanzioni e va a fare affari da un’altra parte. Le sanzioni le sentiranno il popolino, i poveretti e quella piccola borghesia che, pure fra mille problemi e dimenticanze, era nata a dispetto di Putin. Sono loro quelli a cui domattina non funzionerà il bancomat e che non potranno mangiare la sera. Lì nascono le volontà di rivincite e l’odio. Questo favorisce la propaganda: “siete affamati? la colpa è degli americani che vi hanno messo le sanzioni”. Tutte le piccole cose che potevano trasformare la Russia in una società non autoritaria, burocratica e immobile, con le sanzioni spariscono. Non ci sono più contatti e non vedi più niente, fai solo la fame e sei più povero. Così, in assenza di una grande capacità di elaborazione culturale, storica, intellettuale e politica finisci solo per pensare: “questi bastardi che mi hanno rovinato la vita”».

Tuttavia, al di là della propaganda di regime, anche in Russia c’è chi cerca di fare aprire gli occhi al popolo. È il caso della giornalista Marina Ovsyannikova, che ha contestato la guerra in Ucraina durante il TG del primo canale russo. Anche in Occidente vengono avviate iniziative per informare i russi, come la BBC che ha ripreso a trasmettere Radio Londra in onde corte.
«In realtà è abbastanza più complicato di così. Magari a Mosca o a San Pietroburgo, città che hanno avuto contatti stabili con l’Occidente, questo potrebbe aver avuto un impatto. Ma a Vladivostok, in fondo alla Siberia, davvero pensiamo che qualcuno si sia indignato e abbia deciso di farla finita con Putin? La Russia è fatta da gente che sopravvive a fatica come ai tempi di Nicola I, che va in chiesa perché c’è un revival del sacro dopo anni di ateismo imbecille. Stanno a sentire quello che dice Kirillov, mica Biden. Questo è il problema. Noi immaginiamo che gli altri siano tutti come noi, ma non è vero. Non sappiamo guardarci neanche attorno. L’Isis quattro giorni fa ha nominato il nuovo califfo e la notizia è passata in sordina sui giornali, monopolizzati dalla guerra in Ucraina. L’Arabia Saudita ha fatto in un giorno 87 esecuzioni capitali, ma i media non ne parlano per non fare arrabbiare coloro che ci mandano il petrolio. Con questo tipo di attenzione, secondo voi chi vince?»

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