Il giovane attore siciliano, che ha fatto parte del cast del pluricelebrato film diretto da Marco Bellocchio, ha parlato a 360° del suo amore per la professione: dai primi passi all’emozione per essere stato diretto da un grande maestro, fino al rapporto d’ammirazione con Pierfrancesco Favino, da cui afferma di aver imparato molto

Edoardo Strano è un giovane attore siciliano che ha debuttato per la prima volta al cinema nel nuovo film di Marco Bellocchio “Il traditore”, proiettato in anteprima al Festival di Cannes e candidato a ben 11 Nastri d’argento, dove ha interpretato il ruolo di Padre Battesimo. Lo abbiamo intervistato per scoprire quali segreti si nascondono dietro un mestiere così affascinante.

Poter recitare con attori di grande rilievo e sotto la regia di Marco Bellocchio deve essere stata un’esperienza unica. Quali aspettative sono state tradite e cosa invece ha superato ogni tua previsione?
«Se per aspettative tradite intendi deluse, nessuna lo è stata, anzi. Tutto quello che ho vissuto durante le riprese ha superato e sublimato ogni mia previsione. Se invece intendiamo il tradire nel suo senso etimologico, ovvero quello di “consegnare”, ho ricevuto in dono delle emozioni bellissime da parte di tutto il cast, compreso Pier Francesco Favino. Mi sono state consegnate le chiavi di un personaggio complesso e in parte difficile, ma sono stato molto felice di accogliere questa sfida ed entrare in contatto con le bellissime persone che operano nel mondo del cinema. Lavorare in un cast di così alto livello è forse il sogno di una vita e certo non credevo di poterlo realizzare a soli 25 anni, condividendo la scena con Favino che considero uno dei migliori attori del cinema italiano contemporaneo».

Cosa fa di Pier Francesco Favino un così grande attore, secondo te?
«Favino è un attore con la A maiuscola. Per me il bravo attore è colui che dà, è l’individuo generoso per antonomasia che agisce nei confronti della storia, del pubblico, o di un sentimento. Favino è tutto questo e lo dimostra egregiamente nel film “Il Traditore”, in cui si concede totalmente al personaggio di Buscetta, assumendone ogni sfumatura. Buscetta è un prisma, un personaggio complesso e sfaccettato e questo lo rende una sfida assolutamente appetibile, una sfida che Favino ha vinto a pieni voti».

Come definiresti la regia di Marco Bellocchio?
«Per me Bellocchio è un maestro di cinema, un artista che si concede totalmente al lavoro che svolge ed è disposto a modificare in fieri la sua opera, accogliendo le proposte degli attori sul set: tutto questo perché vive il set in pieno fermento creativo. Bellocchio è insomma il regista ideale, dà delle direzioni artistiche ma lascia anche molto spazio agli attori per plasmare e reinterpretare il proprio personaggio».

Quali difficoltà hai incontrato nella preparazione del tuo personaggio e in che modo le hai superate?
«Il mio è un personaggio vile, perché da quando, ancora giovanissimo, scopre che Cosa Nostra lo ha condannato, esce di casa solo in compagnia del figlio, che usa come uno scudo. Io ho tentato di immaginare come potesse vivere questo personaggio pieno di paura e rassegnazione, con questa spada di Damocle pendente sulla testa. Ho ipotizzato la sua quotidianità, cosa pensava ogni mattina al risveglio e quali preoccupazioni lo assalissero la notte, ingabbiato in una routine di nascondigli e rifugi. Ho immaginato anche i suoi incubi, fatti di immagini della sua morte o di quella del figlio. Il personaggio che interpreto è in fondo un fil rouge che attraversa tutto il film e contemporaneamente è incasellato, insieme agli altri, nella coscienza di Buscetta».

Quali sono i principali ostacoli che oggi un giovane attore deve superare se vuole entrare nel mondo del cinema?
«Per me è un percorso in fieri quindi è un po’ difficile dare delle risposte in tal senso, sicuramente però non credo esista un vademecum dell’attore. È importante avere un agente che si occupi della parte burocratica, selezioni i casting e segnali eventuali workshop tenuti dai casting-director, ma soprattutto è fondamentale studiare costantemente. La formazione di un attore deve essere quanto più possibile trasversale perché può accadere che gli siano richieste delle skills multiformi, ad esempio andare a cavallo o parlare una lingua straniera. La bellezza di questo mestiere sta proprio nel poter interpretare anime diverse, donandosi ogni volta al personaggio che si interpreta. È un lavoro molto introspettivo, in cui è fondamentale l’osservazione: bisogna captare i particolari del reale, gli sguardi, le espressioni della gente circostante, quella poesia della vita a cui la recitazione è inscindibilmente connessa. Nell’attore, poi, c’è sempre un pre -agire fatto di riflessione, studio, ma anche di quel silenzio che è secondo me l’humus creativo di questo mestiere».

Da siciliano cosa ha significato per te recitare in un film che racconta il momento più buio della nostra storia regionale e nazionale?
«Per me è stato quasi il coronamento di un percorso di sensibilizzazione alla legalità e di studio degli anni dello stragismo mafioso iniziato a scuola. In questo periodo si parla molto del rischio di emulazione a proposito di “Gomorra”, come in passato era avvenuto per la serie “Il capo dei capi”; penso che nel caso del film di Bellocchio questo rischio sia inesistente perché pur raccontando il dramma intimo di un uomo, il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, non smette mai di ricordare allo spettatore che quell’uomo è pur sempre criminale. Rappresentare questa triste pagina di storia è l’unico modo per creare una coscienza civile ed intraprendere la strada più giusta da percorrere. Per questo invito tutti i giovani a vedere questo film, perché non solo dà loro la possibilità di conoscere un momento importante della nostra storia, ma anche di comprendere che ogni scelta condiziona profondamente il nostro futuro, e nel caso in cui si scelga l’affiliazione mafiosa, questa conduce sempre o al carcere o alla morte. Non dobbiamo poi dimenticare che il film è uscito il 23 maggio, anniversario della morte del giudice Falcone a cui Buscetta consegnò la propria testimonianza».

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