La solitudine vissuta sino in fondo rischia di diventare chiusura oppure, secondo la lezione della poetessa americana, può rivelarsi una preziosa occasione di scoperta

Ha scritto Emily Dickinson in versi fulminanti di straordinaria attualità, che non esiste solitudine paragonabile a quella di “un’anima ammessa al cospetto di se stessa”.

Presentando la figura della grande poetessa americana, che ha trascorso gran parte della propria esistenza in volontario esilio, prima in casa e poi nella sua stanza, nelle settimane iniziali di questa lunga quarantena sfidavo i miei alunni a vivere il “tempo sospeso” della pandemia come un’occasione per entrare in intimità con se stessi e non come una tomba.

La fuga dal presente verso un nostalgico passato o in direzione del futuro immaginato è sempre in agguato e impedisce di stare alla circostanza presente con occhi aperti, per cogliere ogni briciola di senso o di bene che alimenti la vita adesso.

Ma se i miei alunni chiedessero a me, con ironia disincantata o con trepidazione d’attesa, quale bene e quale significato sia riuscito a scorgere io in queste giornate, cosa risponderei? Cosa ho visto di nuovo in un tempo in cui –come mi diceva il mio alunno Salvo– rischiamo che “oggi sia uguale a ieri e domani uguale a oggi”?

In questi mesi, tutti ci siamo scoperti inaspettatamente vulnerabili e le corazze dalla tecno-scienza di cui ci rivestiamo si sono rivelate incapaci di proteggerci. Inoltre, mentre ci acclimatiamo a questa “fase 2”, accade di sentire la parola “libertà” coniugarsi con “responsabilità”, riconoscendo in tal modo che non esistono comportamenti privati i cui effetti non ricadano su tutti. Ma sono i fatti quotidiani e familiari della vita a sorprendere di più.

La prima persona a stupirmi è stata mio padre. A ottantacinque anni suonati, seconda elementare ripetuta due o tre volte, braccia possenti e mani callose orgogliosamente donate all’aspra campagna siciliana fino a due anni fa, chiuso in casa a Mineo, mio papà ha letto il suo primo libro: La vita di Padre Pio.

Centoquaranta lunghissime pagine, lette da cima a fondo, ad alta voce.  Ma non è tutto. Con stupore, mio padre ha scoperto che a fine pagina la frase non finisce! Quasi sempre, infatti, continua in quella successiva e anche se gli bruciano gli occhi non riesce a smettere. Il libro «mi chiama!» – dice. «Non è che ho capito proprio tutto, intendiamoci» confessa uno che nella vita ha praticato poco la virtù dell’umiltà, «ma bello!». Nel frattempo ha terminato il suo secondo libro, La casa di Loreto, e poi, sull’onda dell’entusiasmo, si è immerso nella lettura dei fatti della strage di Capaci. Ogni tanto le vicende lo confondono altre volte si commuove.

Accade qualcosa di imprevisto anche tra gli alunni e i loro docenti. Me lo racconta su facebook la mia collega Gaudenzia la quale, anziché lamentarsi delle vie impervie su cui la didattica a distanza la costringe ad avventurarsi per raggiungere la classe su piattaforme remote seguendo “url” sconosciuti, ha proposto ai suoi ragazzi di scrivere insieme un “Decameron 2020”. «Una lettura, un tema alla settimana – spiega – ed il sabato leggiamo i testi che hanno scritto. Anche io scrivo un racconto per partecipare al gioco. È una bellissima esperienza, forse la migliore di due anni da dimenticare». Un nuovo inizio dove tutto cospirava a allargare il deserto dell’indifferenza.

Anche attorno al piccolo Banco di Solidarietà messo su tra amici in anni di relativa abbondanza, è ripresa inattesa la vita. L’esplosione esponenziale delle famiglie che chiedono di essere sostenute nel loro bisogno alimentare, di pagamento dell’affitto, di una bombola del gas per cucinare o per riscaldarsi, ha fatto in modo che in tanti tornassero a coinvolgersi. Solidarietà, si dirà. Sì, ma c’è di più.

Paradossalmente, la solitudine vissuta sino in fondo, se non diviene chiusura, conduce tanti alla scoperta di altro da sé: qualcosa di misterioso e ineludibile che abbiamo accanto e di cui non ci accorgiamo. I libri, dei rapporti che rendevamo avvizziti, la gratitudine per una compagnia che non ci abbandona.

C’è di più! Siamo dentro una storia che non abbiamo scritto noi, a cui possiamo appassionarci perché il senso del racconto, come ha scoperto mio papà, non termina con la fine della pagina, continua in quella successiva, qualsiasi cosa sia capitata fino ad ora.

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