Appassionati di Filosofia di tutta Italia questo articolo è per voi. Voi che avete messo sulle spalle lo zainetto di scuola e avete deciso, come eroi titanici, di iscrivervi a un corso di laurea senza gloria. Quante ne avrete sentite? Dall’ateo al morto di fame, ecco qui gli stereotipi più simpatici con cui vi sarete cimentati almeno una volta nella vita. Se non vi hanno persuaso, di certo un sorriso ve lo hanno strappato, fra autoironia e qualche verità.

Benché esistano diversi sbocchi lavorativi, dal filosofo coi bambini all’esperto in risorse umane, dobbiamo ammettere che quando si discute di lavoro una laurea in Filosofia non è la prima cosa che viene in mente. Semmai, parlando di studi filosofici ecco catapultarsi nel nostro immaginario un commesso di McDonald’s. Le tonalità giallo-rosse potrebbero anche donarci, ma il punto è: vogliamo davvero privarci del diritto di scegliere ciò che ci piace? «Quindi cosa studi? E per fare cosa? Perché non hai scelto un corso più professionalizzante?». Se per ognuna di queste frasi avessi un euro potrei già pensare alla pensione. Sono domande che nella loro semplicità spiazzano. A pensarci, cos’è che ci viene chiesto esattamente? Ammettetelo, è un modo per domandarci perché non abbiamo scelto ingegneria. Ma la riposta è altrettanto semplice: perché ci piace questo. Ci piace. Capisco che abbiamo perso il gusto di inseguire ciò che amiamo, un po’ per realismo un po’ per sfiducia, ma allora non chiediamo più ai bambini cosa vogliono fare da grandi; mettiamo nei biberon i dati statistici delle lauree che offrono più lavoro. I consigli tuttavia non finiscono qua. Ognuno sembra faccia a gara per correggere questa scelta: «Dovevi iscriverti in pedagogia, avresti potuto insegnare più materie»; «Dovevi fare “pissicologia” così ci curavi tutti». Ma quello più esilarante è senza dubbio: «Perché non sceglievi teologia? Almeno diventavi papa».

Addirittura, c’è chi si mostra preoccupato che questo percorso di studi non solo nuoccia al portafogli, ma anche alla salute: «tutto questo pensare fa male». Non conosciamo molte più persone che si ammalano (e fanno ammalare) per non pensare? I suggerimenti più paternali tengono persino alla salvezza della tua anima: «La filosofia fa diventare atei». E prima che possa chiedermi se un pensiero da solo sia in grado di far perdere un credo, sento l’urlo di Tommaso d’Aquino, filosofo e santo. Accanto a questi prodighi consigli, un capitolo a parte lo meritano gli stereotipi come «Campate per aria» o «Fate chiacchera». Ogni volta che sento pronunciare queste frasi mi trasformo come Sailor Moon: mi cresce la barba grigia e indosso una tunica bianca e dei sandali usurati come quelli di chi viene dalla montagna. Una lancia però va spezzata a loro favore: che facciamo confusione è vero. Ci attacchiamo alle parole come fossero tutto ciò che abbiamo e a volte cerchiamo il dialogo per demolire il nostro infelice interlocutore che nel frattempo, aspettando che finiamo, è entrato in modalità Homer Simpson perché gli abbiamo fatto venire il mal di testa. C’è anche chi interrompe subito perché «Non fare filosofie con me», tranne se è la notte di San Lorenzo in cui siamo autorizzati a citare Kant e il suo cielo stellato fuori di sé.

Una nota a parte la meritano le battute di chi è rimasto “traumatizzato” al liceo: «Mamma mia Hegel, non l’ho mai capito». Mi immagino l’insegnante che li percuote con il righello sulle dita e il fantasma del filosofo che vaga la notte di Halloween togliendo le caramelle ai bambini. Poi c’è anche chi ti dice «Ah bella la filosofia, mi piaceva al liceo», ma alla tua domanda « qual era il tuo pensatore preferito?» lascia rispondere il rotolio delle palle di fieno.

Infine c’è chi ti aspetta al varco per ricordarti la tua scelta: «E menomale che studi Filosofia» che, ammettiamolo, anche fra di noi se non ce lo diciamo, capita che lo pensiamo, dimentichi dello stereotipo forse più sensato, prenderla con filosofia. Allora non possiamo non riconoscere che ogni luogo comune ci restituisce la caricatura di pregi e difetti che sta a noi bilanciare nel luogo più proprio, la nostra quotidianità. Non sono gli studi e le professioni a fare le persone, sono le persone a fare i propri studi e le proprie professioni, e quindi anche gli stereotipi.

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