Come può la fotografia aiutare a conoscere e a vedere in profondità la realtà che ci circonda?  Questo l’interrogativo che il maestro Fulvio Ventura si è posto per tutta la sua vita professionale. Nato nel gennaio 1941 a Torino, inizialmente, durante il liceo classico, si appassiona alla musica jazz e alla pittura. I primi scatti risalgono al 1966, quando il grande fotografo Ugo Mulas fa di lui il suo assistente. Prosegue poi con una breve attività di reportage da cui si distacca presto per dedicarsi integralmente alla fotografia di ricerca, principalmente di paesaggio. Le sue immagini sono state esposte alla Galleria della Bibliothèque Nationale di Parigi, alla Pinacoteca di Bari e alla Biennale di Venezia del 1993 nella sezione Muri di Carta. 

A Milano, il giovane Fulvio, durante i due anni dell’università che frequenta come studente di Filosofia, conosce Anna de Lorenzi, che non molto tempo dopo diventerà sua moglie. Anna sarà la compagna di Fulvio per tutta la vita e anche la sua assistente nella maggior parte dei lavori fotografici.

La fotografia di reportage, tuttavia, non lo soddisfa e a più riprese scrive a tal proposito. Poi la svolta, nel 1972, a seguito di un viaggio viaggio in Spagna e in Marocco: la sua fotografia abbraccia la ricercar metafisica. «Fin da piccolo – afferma – ho optato per l’atteggiamento nei confronti del mondo visto in quanto “cosmos”, cioè “bello” come dice l’etimologia greca, come “cosa buona”, come è scritto nella Genesi, e solo di questo posso parlare».  La natura, da questo momento, diventa il suo soggetto prediletto: cieli, nuvole, nebbie, colline, alberi, cespugli, erbe, fiori, cactus e cortecce. Il suo strumento è una Nikon (passerà poi alla Leica) e dopo il 2000 anche il formato più grande con la Mamiya 6×7.

Il fotografo torinese si immerge in una natura selvaggia, svuotata da ogni traccia umana. Scorci inaccessibili, dai contorni quasi fiabeschi catturano la sua attenzione. È come se avesse scoperto dei segreti che solitamente sono negate alla conoscenza degli uomini: un’armonia di immagini e di suoni, come i cespugli che intrattengono una conversazione al crepuscolo, o un gruppo di alberi che suona un concerto jazz.

La foto scelta per questo appuntamento della rubrica è stata scattata nel 1978 a Milano. Lo stesso Ventura l’ha intitolata “Parco cittadino”, ed è un esempio della sua continua ricerca sul significato della vita e della morte. In un non lineare spazio pieno di alberi, in cui i rami sembrano intrecciarsi in modo indecifrabile, un uomo si inoltra in una strada in salita, dalla quale non si vede il punto di arrivo. Il cammino dell’uomo sembra sicuro, guarda la strada, sa che nulla sarà semplice nel percorso, ma non ha paura, procede spedito verso la meta che anche se non conosce. E ciò non lo terrorizza. La natura rappresentata dagli alberi e dai tanti rami gli fa compagnia facendo intravedere un cielo pieno di luce.

In una conferenza alla facoltà d’Architettura del Politecnico di Milano, Ventura disse che: «Il lavoro fotografico autonomo sul paesaggio mi ha sempre appassionato, sono sempre stato attratto dalla natura, non dico vergine, ma quel tanto di non avvilita dall’intervento negativo dell’uomo, da far sì che la si possa vedere e rappresentare fotograficamente come luogo di apparizioni».

Nonostante i suoi meriti, e forse a causa del suo carattere estremamente riservato, Fulvio Ventura è stato spesso dimenticato dalla critica. Compagno d’avventura dei più famosi Ghirri, Guidi e Chiaramonte, è morto l’anno scorso a 79 anni. Sembra impossibile che solo oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, veda la luce “Sagacity”, un libro concepito nel 1975, su cui l’artista è tornato per tutta la vita, che in una dimensione sospesa tra il reale e l’irreale, tra racconto e immagini, narra dell’archivista Lindhorst, re delle salamandre e delle sue tre figlie. 

Per i suoi amici, che il 7 marzo del 2020 non hanno potuto dargli l’ultimo saluto a causa delle restrizioni dovute alla pandemia, Fulvio è ancora presente magari nelle ombre di un bosco o tra le nuvole, oppure nell’intreccio tra i rami di due alberi dove si intravedono i suoi occhi lieti in una dimensione dove il tempo come grandezza fisica non esiste.

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