Nei suoi cinquant’anni di carriera, Gabriele Salvatores è sempre riuscito a passare istrionicamente da un medium all’altro facendo dell’indagine sul linguaggio un elemento imprescindibile del suo lavoro. All’inizio con il teatro d’avanguardia, poi con il cinema di fantascienza, con uno sguardo sempre rivolto alla letteratura contemporanea, fino ad arrivare a un prodotto cinematografico partecipativo dove le riprese di persone comuni diventavano trama di una narrazione altra, sapientemente orchestrata dal regista napoletano. «Nel 2013 per il documentario Italy in a Day – racconta Salvatores al Catania Film Fest, dove in veste di presidente onorario ha anche ricevuto il premio alla carriera – avevamo chiesto agli italiani dei filmati su qualcosa che li avesse particolarmente colpiti in una data specifica: il 26 ottobre. Quando è scoppiata la pandemia, il produttore di Indiana Production Marco Cohen, ha proposto di fare la stessa cosa. Così, attraverso i social soprattutto Instagram, ci siamo fatti mandare brevi filmati su come ognuno vivesse quei giorni d’isolamento forzato, con la consapevolezza che rispetto al primo progetto qui ci fosse maggiore attenzione alle emozioni, più intime e private, della gente».

PRESENTE E FUTURO. Nasce da qui Fuori era primavera, uno spaccato di storie con le quali immortalare il lockdown di marzo, congelando nel tempo piazze vuote, medici in prima linea e balconi in festa. Sono stati in otto mila gli italiani che hanno mandato i loro filmati amatoriali realizzati con smartphone e telecamere, montati poi da Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti sotto l’occhio vigile del maestro. Il film collettivo, disponibile sulla piattaforma Raiplay, verrà trasmesso su RaiTre il due gennaio. «Mi piacerebbe che il docufilm – aggiunge, il regista – ci facesse ricordare l’ironia con la quale avevamo affrontato quel periodo doloroso, mettendoci addosso la voglia di pensare al futuro. Se lo rifacessimo oggi il risultato sarebbe sicuramente diverso, quel senso di appartenenza e di solidarietà che si respirava in quei mesi e che ci ha fatto sentire tutti sulla stessa barca si è perso. L’insofferenza è aumentata come anche l’individualismo, nonostante nessuno si salvi da solo». D’altra parte, mantenere sempre il sorriso, anche nelle situazioni più complicate, è l’arma più potente a disposizione dell’uomo: «Ripenso a quella signora incinta che si è disegnata l’autocertificazione sul pancione per il bambino che avrebbe partorito». E nel film i bambini di certo non mancano, sono loro il giusto segnale per andare avanti e immaginare un futuro possibile.

GENERI E FORMATI CINEMATOGRAFICI. Scavando nei romanzi di Cacucci, Ammaniti, Verasani e Lilin, Salvatores ha dato vita negli anni a pellicole di denuncia, nelle quali spesso i protagonisti fuggono dalla realtà per dare inizio a un viaggio interiore. Una ricerca spasmodica presente in quasi tutti i suoi film da quelli di fantascienza come Nirvana, ambientato in un videogioco, a quelli in cui usa gli effetti speciali, è il caso del noir Quo vadis, baby? o de Il ragazzo invisibile. La voglia di varcare nuove strade di certo non gli manca neanche dopo aver raggiunto tanti traguardi importanti uno su tutti l’Oscar come miglior film straniero nel 1992 con Mediterraneo: «Mi piacerebbe molto fare un western – prosegue – anche se atmosfere del genere si ritrovano in alcuni dei miei film. Da quando lo storytelling, il racconto di una storia, è diventato prerogativa della televisione, delle serie TV, il cinema è chiamato a un lavoro diverso, forse dovrebbe avvicinarsi più alla poesia che al romanzo occupandosi maggiormente di noi esseri umani magari attraverso una vera indagine dell’anima. Alcuni western l’hanno fatto – aggiunge, accennando un sorriso, il regista – quindi forse le due cose si possono anche mettere insieme».

QUALE SARA’ IL FUTURO DEL CINEMA? La necessità di mantenere le distanze interpersonali ha accelerato, in quest’ultimo anno, la propensione a spostare lo spettacolo dai luoghi fisici alla dimensione dello streaming. «Da trent’anni a questa parte, dall’avvento delle televisioni private, l’obiettivo sembra essere quella di isolarci, chiudendoci in casa davanti a schermi televisivi dove si vede e sente meglio che al cinema. Inoltre – commenta – i social hanno alimentato l’illusione di essere connessi con gli altri quando in realtà siamo soli. È una tendenza inarrestabile che in qualche modo va combattuta. È ovvio che in questo momento non si possa fare altrimenti e quindi va benissimo che i Festival di cinema si facciano in streaming o che certi film escano sulle piattaforme ma non dimentichiamo il valore fondamentale della sala. L’uomo ha l’esigenza di ritrovarsi in una caverna buia entrando nel sogno di un’altra persona». Quindi non più una dimensione in cui siamo noi a gestire il flusso temporale, magari attraverso un telecomando con il quale cambiamo canale, ma nella quale ci troviamo di fronte a un tempo dettato dal prodotto culturale. «Il cinema, il teatro, la musica ci fanno attivare il cuore e la mente chiedendoci solamente di diventare spettatori ricettivi. Ecco perché credo che la sala non morirà mai, piuttosto bisognerà trovare la soluzione, ed è la domanda da un milione di dollari a cui tutti noi stiamo lavorando, per riuscire a mettere insieme le piattaforme streaming e lo spettacolo dal vivo».

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