Una scrittrice italiana che anni fa era molto attiva sui social aveva scritto, una volta, sulla sua pagina Facebook: «Vorrei tanto che un fiore, per me, fosse soltanto un fiore, che ogni cosa fosse soltanto quella che è». Mi è sempre rimasta impressa perché anch’io, a lungo, ho sperato che le cose per me fossero soltanto le cose. Senza sovrastrutture, secondi significati, simbolismi e quant’altro.

Anch’io ho sperato di guardare i fiori e vederci soltanto i fiori, almeno fino a qualche tempo fa, quando per la prima volta dopo tanto tempo ho rimesso in discussione questo desiderio e mi sono resa conto che in realtà, per le esperienze che ho vissuto finora, forse non è che mi piaccia tanto guardare i fiori e vederci solo dei fiori, anzi.

Se da ragazzina andavo in cerca della semplicità e della spontaneità che il mio eccesso di analisi mi sfilava via dalle mani, ora che il mondo mi sembra sempre più superficiale e distratto, veloce e disattento, cerco di soffermarmi il più possibile sui dettagli, per provare a capire meglio l’essenza delle cose, o comunque ad andarci più vicina.

È con questo spirito che ho iniziato a leggere Le strade del tè di Lucia Azema (Edizioni Tlon, traduzione di Nunzia De Palma), un saggio dedicato a descrivere la bevanda del titolo in un’ottica tanto storica quanto geografica. Azema era già uscita in Italia l’anno scorso con Donne in viaggio, sempre per Tlon e sempre tradotta da Nunzia De Palma, e mi aveva colpita per il taglio narrativo e scorrevole con cui era capace di presentare perfino le statistiche più scoraggianti, le informazioni più scientifiche, i dati più asettici.

Quest’anno, la sua nuova opera dedicata a un argomento forse più puntuale e circoscritto del precedente, ma che poi si rivela straordinariamente ampio e sfaccettato, non solo ha confermato l’idea che avevo di lei, ma mi ha perfino aiutato a ricordare quanto sia importante sviscerare le questioni che ci interessano, senza pensare che una bustina di tè verde sia semplicemente una bustina di tè verde, per l’appunto.

Per crederci basterebbe anche solo dare un’occhiata all’indice del testo, scoprendo così che il tè ha viaggiato nel tempo e nello spazio, cambiando reputazione e attribuiti, conquistando diverse classi sociali, venendo associato a ogni sorta di rituale, di contesto, di storia popolare, per poi arrivare fino a noi in pacchi da dieci delle marche più assurde e più colorate, senza che magari nemmeno sospettiamo cosa custodisca il suo passato al di là di parole-chiave come l’India, il Regno Unito o la Rivoluzione americana.

Del resto, oltre a qualche nozione scolastica o luogo comune particolarmente diffuso (e magari perfino fondato), non tutti potrebbero forse immaginare quanto importante sia l’ingrediente acqua nella preparazione del tè, per esempio, quale legame ci sia fra questo alimento e la schiavitù, in che modo sia arrivato a conquistare i quattro angoli del mondo, o che relazione abbia con le questioni di genere, il colonialismo e perfino l’istruzione.

«Anche il tè si fa turbare dalla luce. O, meglio, dai suoi cambiamenti e dall’emergere del buio. Quando la notte si abbatte sui nostri scali, lo spirito del tè ci insegna a osservarla, a addomesticarla, e a cercarvi degli attracchi. Perché se non esistono peregrinazioni senza scali, non esiste giorno senza notte», scrive non a caso Azema, nel raccontarci uno degli ultimi suoi viaggi proprio all’insegna del tè e della sua scoperta.

Perché, se vogliamo continuare a pensare che un tè è soltanto un tè, nulla ci vieta di limitarci ad andare in cucina a intingerne un po’ in una tazza e a sorseggiarlo mentre scegliamo che canale guardare in tv, o che libro sfogliare fra un sorso e l’altro. Ma, se invece preferiamo pensare al tè come a una storia a tre dimensioni, a un miscuglio di tradizioni e credenze, di esperimenti e commerci, di linguaggi e costrizioni, di rischi e di spostamenti, sarà bene tenere a mente che «L’esercizio del tè è quello del viaggio, dell’avventura, di una vita interamente rivolta all’orizzonte».

E soprattutto che, esercitandoci a vedere al di là del nostro naso mentre stringiamo una bevanda calda fra le mani, ci sarà più semplice compiere anche un altro esercizio, allenandoci a portarlo a termine un giorno dopo l’altro: «Quello di una continua presenza a se stessi, di un’accettazione piena e intera dell’esistenza tramite la consapevolezza che la solidità della nostra vita sta nella frammentazione: la certezza intima che, se niente ci appartiene, il fiore selvaggio al fondo di noi stessi cresce sempre di nuovo». E avrà sempre qualcosa da rivelarci.

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