Ogni grande romanzo è anche, intrinsecamente, l’espressione di una grande storia collettiva. Non tanto – o non solo – per la verosimiglianza degli scenari che propongono, per la vastità degli archi temporali che riescono a coprire, per l’affollarsi di corali di indimenticabili personaggi. Quanto, piuttosto, per la capacità di cristallizzare tra le loro avvincenti pagine sogni, leggende, timori e battaglie di intere generazioni. Somigliano, per certi versi, a quelle favole primigenie, dove a muoversi, in un grande teatro a cielo aperto fatto di carta e parole, sono gli archetipi del nostro stare al mondo. Le controfigure più o meno possibili, più o meno bislacche, di ciò che siamo stati e che, talvolta al di là della nostra contezza, continuiamo ad essere. E poco importa che l’origine di queste creature letterarie affondi le proprie radici in una importante dose di finzione: è la morale che sorreggono, i destini di cui si fanno portavoce a renderli custodi della memoria. Tanto più se si prendono in considerazione quelle opere che sanno librarsi con grazia tra rielaborazione storica e feuilleton, tra intrighi profondamente perturbanti e velate sferzate di ironia, su intrecci narrativi che scaturiscono dalla collisione tra umili e potenti, tra privilegio e voglia di libertà. Opere come I promessi sposi o I tre moschettieri, epopee immortali in grado di trascendere il loro tempo e il loro originario confine narrativo, per assurgere a emblemi di un’epoca. E proprio alla celebre fatica di Alexandre Dumas si ispira, sotto diversi punti di vista, un’altra epopea, questa volta interamente siciliana: quella ritratta dal palermitano Luigi Natoli nel suo I Beati Paoli, pubblicato originariamente a puntate sul Giornale di Sicilia tra il 1909 e il 1910 ed ispirato alla leggenda della setta di giustizieri che si dice operasse nel capoluogo isolano a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, opponendosi alle sopercherie dei prepotenti. Quello steso da Natoli, tuttavia, non è appena l’affresco di una società di guasconi e signorotti. E non è nemmeno la scenografica riproposizione di un mito, quello dei sicari della giustizia celati dalle ombre. È, invece, un vero viaggio a ritroso, alla ricerca di quei caratteri originari, di quel furore misto ad indolenza, che caratterizza il popolo siciliano.

In una Trinacria ammantata dallo splendore barocco, negli anni che vanno dal 1698 al 1719, il romanzo segue infatti le vicende del giovane Blasco da Castiglione, D’Artagnan siculo di bell’aspetto e abile con la spada, ma del tutto squattrinato, che giunge a Palermo per scoprire il mistero che avvolge le sue origini. Sullo sfondo vivido e storiograficamente accurato – Natoli, d’altro canto, era anche un docente di storia – delle contese tra le grandi potenze europee per il predominio sull’isola, tra francesi, spagnoli e Savoia, tra paci effimere e guerre di successione, il protagonista scopre di essere stato vittima delle trame di don Raimondo Albamonte della Motta. Il quale, appresa la notizia della morte in battaglia del fratello maggiore, il duca Emanuele padre di Blasco, aveva deciso di sbarazzarsi del piccolo, legittimo erede del titolo ed ultimo ostacolo rimasto alla sua scalata verso il potere. Prima che il piano venisse attuato, i servi rimasti fedeli al duca avevano trasferito il piccolo al sicuro, affidandolo alla cura di alcuni frati all’insaputa di don Raimondo. Appreso fortuitamente l’accaduto, Blasco giura di riprendersi ciò che gli è stato tolto. Ed è qui che fanno la loro comparsa i membri della segretissima congrega dei Beati Paoli: essi, ben a conoscenza delle malefatte del duca illegittimo, infatti, si schierano al fianco del giovane. Ben presto, tuttavia, l’intreccio narrativo subisce uno scarto che mette di fronte i personaggi, ed i lettori, dinanzi ad un quesito amletico. Blasco vorrebbe risolvere la questione pacificamente, secondo giustizia. I congregati, dal canto loro, propendono invece per una soluzione drastica, al costo di lasciare che le strade di Palermo si riempiano di sangue. Senza svelare verso quale diramazione procede il racconto (specie quando Blasco dovrà fare i conti con i suoi sentimenti per Violetta, anch’ella vessata da don Raimondo) per non privare nessuno del piacere della lettura e della scoperta, è su questo fulcro tematico che Natoli ci spinge a riflettere. Sul confine sottile che esiste tra legalità e giustizialismo, tra voglia di rivalsa e voglia di sopraffazione.

È su queste dicotomie, ci dice l’autore, che si regge da tempi immemorabili la storia siciliana. Sull’inquietudine che progressivamente si trasforma in fascinazione verso ciò che si sgancia dalle regole considerate inique. Su una certa rassegnazione di fondo nei confronti di ciò che è ritenuto immutabile, dalla politica alla morale. I Beati Paoli, in questo senso, misteriosi, ambigui e mascherati, rappresentano quella magmatica avversione verso il potere che i siciliani covano ancora oggi. Verso la mercanzia dei sentimenti, asserviti alle logiche della spartizione delle influenze. Verso tutto ciò che dall’esterno minaccia di spezzare degli equilibri già precari: «Vedrai che l’isola passerà all’imperatore e noi avremo fatto la guerra al Savoiardo per dare comodità al Germanico di pigliarsi la nostra bella isola. Da un padrone all’altro; sempre così».

A distanza di oltre un secolo, I Beati Paoli rimane un esempio insuperato di letteratura popolare, infuso com’è – dall’autenticità dell’amore all’etica pubblica, dalla religiosità di facciata alla strana perversione di guardare con occhi sospettosi, al punto da confonderli, sia i buoni che i cattivi, sia gli eroi che gli antagonisti – di eterni interrogativi declinati alla maniera siciliana. Interrogativi così urgenti, moderni e pressanti che qualcuno, nella vicenda surreale ma non troppo della setta che si aggira per i sotterranei di Palermo per poi riaffiorare repentinamente per colpire i suoi obbiettivi, ha persino azzardato di avervi intravisto il germe delle moderne mafie. Ma questa è un ‘altra storia. O un altro romanzo. O forse no.

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