I bambini, lo Yemen e le bombe costruite in Italia: storia di un paese lontano che riguarda anche noi
Se tu potessi scegliere, in quale paese faresti nascere tuo figlio?
Lo Yemen è quel rettangolo di mondo a sud della Penisola Arabica che i romani chiamavano Arabia Felix. Oggi di felice non ha nulla. È uno dei luoghi peggiori dove essere bambini: i suoi piccoli non ridono ma muoiono di malnutrizione o impugnando armi; le sue ricchezze non illuminano quanti le abitano ma accecano chi se le contende in un conflitto divenuto proxy, cioè delegato. Che vuol dire? E perché dovrebbe interessarci? Ne ha parlato Laura Silvia Battaglia al-Jalal, reporter catanese che su media nazionali e internazionali ha raccontato lo Yemen dall’interno, in occasione dell’incontro “Yemen, uno sguardo sul paese”, organizzato dall’Associazione NEMO-In-Forma.Citt@ nell’ambito del progetto di accoglienza “Una Comunità per una Famiglia”.
UNA TERRA UNICA. Questa non è soltanto la terra che ha dato il nome alla nostra caffettiera: fino a non molto tempo fa, navi cariche di pregiato caffè partivano da Mocka, porto yemenita sul Mar Rosso, per riempire le nostre moke. «Lo Yemen – precisa Battaglia – è anche l’unica repubblica della Penisola Arabica e l’unico paese dell’area ad aver firmato la Convenzione Onu per i rifugiati», garantendo accoglienza, persino in guerra, a chi fugge da violenze, come i somali. Perché in questa parte del globo è difficile dire chi stia peggio. Dal 2014 un conflitto lacera il paese, condannando sempre più figli a perdere l’innocenza dell’infanzia, con conseguenze che minacciano anche la nostra parte di mondo.
SICUREZZA. «Questa guerra – spiega Battaglia – nasce dalle opposizioni tra il Nord e il Sud del Paese, esasperate dalle primavere arabe che non hanno portato il miglioramento sperato». Anche qui a mancare alle proteste è stata una progettualità comune. Ma oggi non si tratta solo di dissidi interni. «Questa guerra – aggiunge la reporter – è in realtà un caleidoscopio di rivalità geopolitiche internazionali». Infatti, per lo stretto di Bāb el-Mandeb passa circa il 5% della fornitura mondiale di petrolio, quasi 5 milioni di barili al giorno, diretti in Europa (2.8 milioni), Medio Oriente e Asia (2 milioni). È facile intuire perché potenze più diverse come Usa, Francia, Uk, Egitto, Iran e Corea del Nord (per citarne alcuni) si interessino all’area. Incluso il terrorismo jihadista che, a partire dai militanti di al-Qaeda, nel caos e nella miseria trova seguaci. Così lo splendido regno della regina di Saba rischia di diventare coltura di violenza internazionale.
COERENZA. Il greggio non è l’unica merce interessante a passare per lo Yemen: a stabilizzare il conflitto contribuisce la vendita di armi. «Solo secondo un contratto del 2016 dall’Italia sono partite 4.000 bombe – ci dice la giornalista parte di Lighthouse Report, un ente che, in collaborazione con Sipri, indaga sulla compravendita delle armi –. Ma questo mercato è una matrioska difficile da bloccare: un’azienda americana con sede in Uk fa spolette; un’altra con sede in Europa e fabbrica altrove si occupa del corpo della bomba. Le componenti raggiungono la meta da luoghi diversi per essere assemblate in loco». «Quel che è certo – aggiunge la reporter – è l’effetto che questo traffico ha sulla popolazione. C’è chi lo giustifica sostenendo che le fabbriche di armi creano occupazione, come la fabbrica in Sardegna. Ma davvero per lavorare abbiamo bisogno di produrre bombe? Per qualche operaio abbiamo perso almeno 200 persone che lavoravano tra Yemen e Italia occupandosi di restauro. Cos’è più bello farci capofila per l’arte o per l’orrore?». Si fa strada una domanda: l’Italia ripudia la guerra, ma anche quella a casa loro?
UMANITÀ. A rendere più triste il quadro la malnutrizione: solo nell’ospedale di Abs dal 2016 al 2021 si è passati da 68 a 3.316 casi di bimbi sotto i 5 anni. Se potessero, le mamme yemenite sceglierebbero un altro paese per i loro figli. Perché la natalità non frena? «Le donne guidano, sono chirurghe e impiegate ma la loro condizione è peggiorata», chiarisce Battaglia. «È chiaro che molte non vogliono restare incinte in guerra. Da sei mesi una legge vieta loro di comprare anticoncezionali senza un parente maschio». A incidere sono poi i matrimoni precoci. «Una misura li stava per vietare ma alla fine è scivolata nell’oblio. Non dimenticherò il dolore di un uomo che ha dovuto dare la figlia in sposa per pagare la dialisi alla moglie, un tempo gratis. In zone molto depresse donne e bambini sono beni economici: il bambino lavora e combatte, la donna è utero per nuovi combattenti». Le parole di Battaglia sono ferme e commosse. «Questo non è un conflitto dimenticato ma taciuto. Cosa possiamo fare noi? Informarci – chiosa Battaglia –. E provare a svuotare questo mare con la nostra conchiglia».