Quando si scrive un resoconto di viaggio, c’è sempre, nel suo svolgersi, la sensazione di un dualismo irrisolto. Da un lato, l’oggettività, la necessità di essere analitici che tenta di prendere il sopravvento. Dall’altro, signoreggia, invece, la meraviglia che segue alla scoperta dell’ignoto, lo stupore dell’inimmaginabile che prende vita davanti agli occhi. Razionalità ed esotismo, antropologia e folklore: connubi che vorrebbero tenere distinte le loro anime e che finiscono per mescolarsi in maniera quasi indistinguibile. Almeno fino a quando, inevitabilmente, il sublime si impone sul resto. Permeando linguaggi, immagini, gesti, incontri. Annegando il proposito originario della traversata in un’avventura dai contorni quasi mitici, dove le dimensioni del tempo si sovrappongono in un eterno peregrinare della memoria. Perché scrivere di viaggi, si sa, equivale un po’ a scrivere di sé stessi. Delle vite che vorremmo vivere, contemporaneamente, in ogni quando e in ogni dove, delle speranze che sogniamo di avverare e delle delusioni che desideriamo ricacciare nel dimenticatoio. Delle catene che ci tenevamo legati allo spettro della staticità. Chissà quali di questi sentimenti aveva stipato nel proprio bagaglio il giornalista e scrittore ceco Karel Čapek alla vigilia del suo approdo in Sicilia, nel 1923, quando gli fu chiesto di raccontare la nostra isola da un quotidiano praghese. Chissà cosa si attendeva di  trovare nella Trinacria sulla quale prima d’allora, tra l’eco di Grand Tour andati e stralci di giornale, aveva solo potuto fantasticare. Forse di restituire ai propri committenti le impressioni di una tappa fugace, qualche aneddoto masticato a fatica, scorci di paesaggio rubati al sonno dal finestrino di un treno. E invece Čapek scoprì qualcosa che mai avrebbe immaginato: in Sicilia stava per lasciarci l’anima e il cuore.

Ogni tappa del suo itinerario, infatti, si tramutò ben presto in un impulso irrefrenabile alla scrittura. Annotava con appassionata minuzia, in quello che poi sarebbe diventato il capitolo Da Palermo a Taormina incluso nella più ampia raccolta Fogli italiani – disponibile anche in italiano per le edizioni Sellerio – ogni scoperta, ogni manufatto che gli si presentava dinanzi agli occhi come incarnazione dello spirito di un’intera terra che andava pian piano svelandosi. Eloquente, in questo senso, la sua reazione alla vista di un carretto siciliano finemente decorato ed intarsiato: «Questi carri sono infatti dipinti magnificamente; leggende, duelli cavallereschi, scene storiche, guerre, immagini drammatiche della vita contemporanea, tutto è dipinto con primitività gotica o un po’ alla maniera delle antiche carte da gioco. Il primo carretto avrei voluto comprarlo immediatamente; mi pareva un pezzo da museo. Dopo due giorni, ne ho viste alcune migliaia, e tra loro delle perfette meraviglie policromatiche. Se l’arte popolare vive una vita piena, è qui». E poi le vedute. La fitta, densa, traboccante stratificazione di miti e costumi, di natura e di monumenti. Se ne lasciò quasi inebriare, Čapek, come fanno i viandanti sbadati che dimenticano quale meta li aspetta. Catturato, nel suo incedere rallentato, da un concerto di luci e riverberi.

Karel Čapek

Fino all’ultima, maestosa sorpresa: la Valle dei Templi di cui, si evince dal testo, non conosceva probabilmente nemmeno l’esistenza: «Pagatemi queste righe a peso d’oro, non per la loro bellezza intrinseca, ma perché per esse tanto ho dovuto pagare. Ma se conto dieci centesimi per ogni stella e un centesimo per ogni mormorio del mare, dieci lire per il fuoco vermiglio dell’Etna e per l’aria balsamica mezza lira all’ora – come vedete, non conto né i riverberi del mare, né le palme, né l’antico castello e nemmeno il teatro – orbene, poi ne varrà la pena, e sia lodato Iddio che mi ha mandato in questa terra. Con il suo miracoloso potere mi ha condotto prima da Palermo attraverso la Sicilia, attraverso una quantità di colline sacre, strane e tristi, per viali di cactus e miniere di zolfo fino a Girgenti, che è una cittadina su una montagna, con a pochi passi tutta una serie di templi greci. Sono di ordine dorico e di conseguenza molto leggiadri».

Fu il punto più alto di un tempo da favola. Dove la realtà si mascherò da fantasia. Dove l’ingenua indifferenza si tramutò in un sogno tangibile. Quello di Karel Čapek, cantore involontario di una terra che fino a quel momento per lui non era quasi esistita. Ennesimo figlio del mondo che credeva angusti i confini siciliani. E che invece, il mondo vero, lo aveva proprio incontrato in quelle strade arse dalla canicola: «L’influsso spagnolo è l’ultimo; il primo è greco, il secondo e il terzo sono il saraceno e il normanno; il rinascimento qui ha colpito solo di striscio. Mescolate questi vari elementi culturali con un sole abbacinante, una terra africana, una quantità di polvere e una vegetazione meravigliosa, e avrete la Sicilia».

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