Ogni epopea del potere possiede e pretende il proprio racconto. Sparse lungo gli argini nebbiosi del mito, tra le albe primordiali della storia o tra le strade affollate e tumultuose della modernità, le gesta di grandi sovrani, prestigiose casate o eccezionali individualità da sempre si ingegnano per scampare alla condanna ineffabile del tempo. Per tramutare il fatto in perenne testimonianza. L’esistenza in immagini scolpite nella memoria. La grandezza del loro lascito in icone immortali. Per fare questo, tuttavia, il potere non basta a sé stesso. Deve interpellare colei che il tempo ha imparato ad ingannarlo, ad ingabbiarlo, ad estenderlo a proprio piacimento. Come un cavaliere che attende trepidante la propria investitura con la spada sulla spalla, anch’esso deve in qualche misura inchinarsi. Inchinarsi all’arte, al suo valore eternatore, alla sua capacità di conferire dignità a ciò che viene immortalato. Concedere ai seguaci di quest’ultima di fare da interpreti della loro richiesta. Non c’è, scorrendo avanti e indietro lungo i viali del passato, un regnante, un signorotto, un aspirante membro dell’alta società – persino qualche sparuto parvenu dalle ambizioni più o meno legittime – che non abbia aspirato, riuscendoci o no, a dare le proprie sembianze a maestose sculture prima o comparire, poi, su una tela; se non, addirittura, su un esteso ciclo di dipinti. Dai grandi monarchi dell’antichità alla ritrattistica rinascimentale, dalla nobiltà decaduta ai nuovi ricchi dell’industria a cavallo tra ‘700 e ‘800, è un vero mosaico di volti, di espressioni cariche di fierezza ed ardore quello che la mano di tanti ispirati artisti ci ha tramandato. Tra essi, c’è anche chi, proprio in Sicilia, ha assistito al dipanarsi di quella che probabilmente, oltre che una delle più fulgide, fu l’ultima epopea isolana: quella della famiglia Florio, della loro ascesa e del loro impero, della loro lungimiranza e del loro coraggio, celebrati in questi giorni dall’uscita della serie tv tratta dai romanzi di Stefania Auci. Il suo nome era Ettore De Maria Bergler e le sue pennellate hanno saputo, come poche altre, restituire l’immagine di una Sicilia che fu. Adornata dall’estetica e dallo spirito Liberty. Splendida nel suo sognare vette sempre più alte. Unica come i paesaggi che facevano da sfondo all’azione di questi personaggi.

E proprio ai paesaggi è legato l’esordio di Bergler, allievo dallo straordinario talento di due maestri d’eccezione come Lojacono e Leto. Fu quella sensibilità per le scene en plein air, per la dolce e malinconica luce soffusa di certi scorci di Sicilia a guadagnargli le attenzioni del pubblico e di eminenti colleghi quali Ernesto Basile. Ma, verrebbe da dire, non solo, se è vero che ad un certo punto della sua carriera il pittore palermitano legò indissolubilmente il suo nome agli ambienti più altolocati e magnificenti del capoluogo siciliano. Sul finire dell’800, infatti, gli si aprirono le porte della committenza più prestigiosa che la città potesse vantare. Testimonianza di quel connubio destinato a lasciare il segno è il ritratto – un tondo, per l’esattezza – con il quale Berger restituì tutta la grazia, l’eleganza, il divismo sofisticato di Franca Florio. Pendenti, collane e vestiti di pregio appaiono solo come la superficie di un sentire aristocratico ben più profondo, quasi fiammeggiante sul fondo dei suoi occhi decisi. Gli stessi che campeggiano sul volto della piccola figlia Giovanna, ritratta anch’ella dal pittore nell’incipienza della sua nobiltà. Crescevano quasi insieme, Bergler, i Florio e Palermo, abbracciati tutti e tre dall’esplosione europea dell’Art Nouveau, sospinti dal vento di un irrefrenabile cambiamento. E mentre altre illustri famiglie – come quella dei Whitaker, appartenenti ad una nutrita schiera di aristocratici stabilitisi a Palermo in quegli anni – facevano a gara per accaparrarsi i suoi servizi, un ultimo passo mancava a Bergler per assurgere all’Olimpo dei più grandi: legare il suo nome agli edifici simbolo dello splendore della Palermo di fin de siècle. Furono, ancora una volta, i Florio a dare impulso al suo genio. A lui, infatti, appartengono gli affreschi a tema floreale di Villa Igiea, la cosiddetta “palazzina di Donna Franca”. Suo, per di più, è lo splendido lavoro compiuto sulle decorazioni interne in quell’unicum architettonico che è la Villa all’Olivuzza, destinata al giovane e intraprendente rampollo Vincenzo. Suo il tocco Liberty sul palco reale del Teatro Massimo. La guerra giunse poi come la più tragica delle cesure. Nulla riuscì più a farsi spazio tra le sue macerie. Né la dinastia dei Florio, né la gioiosa leggerezza dell’Art Nouveau. Anche Bergler, quasi ripiegato su sé stesso, lontano dalla mondanità che lo aveva consacrato, tornò esclusivamente ad occuparsi di paesaggi. L’arte non poteva più rappresentare il bello. Ma solo lo sguardo sguincio, deformato, drammatico del brutto.

“Paesaggio su fiume”, 1877

Fu un sogno, ma non durò poco, avrebbe cantato De André. Perché sulle tele, sui soffitti e sulle pareti i sogni non sbiadiscono. Così come il nome di Bergler, cantore omerico di un’epica vicina eppure lontana. Di giorni andati ma, anche grazie a lui, non perduti. Di un tempo in cui la Sicilia ha conosciuto i suoi ultimi re.

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