Il conflitto fra scienza opaca e memoria umana in “Come un mattino texano”
Uno dei primi film che ho davvero apprezzato da adolescente è stato Eternal Sunshine of the Spotless Mind: l’Eterna Letizia della Mente Candida (verso del poeta Alexander Pope), anche conosciuto con il contestabile titolo italiano di Se mi lasci ti cancello.
Una vicenda in cui Kate Winslet e Jim Carrey intrecciano la loro vita e il loro rapporto al concetto della memoria, che se conservata ci permette di creare una relazione con gli altri e di conoscere noi stessi, ma che se invece viene cancellata ci rende… come? Diversi, ignari. Lieti, forse, ma più lontani dalla nostra identità.
Il tema in quel caso era collegato a una storia d’amore, anche se potremmo affiancarlo a qualunque genere, personaggio, racconto. In Come un mattino texano, per esempio, l’ultimo romanzo edito da Polidoro Editore nella collana curata da Orazio Labbate, lo scrittore e giornalista Michele Neri lo applica alla fantascienza, in un futuro dai contorni quasi distopici.
Il protagonista è infatti Traven, un uomo che potrebbe trasformare la propria coscienza in un software, in un’entità ultraumana immortale e serafica, perdendo di conseguenza non solo il suo corpo, ma anche e soprattutto il suo passato. Il peso dei suoi ricordi. Ciò che lo tendeva imperfetto, fragile, eppure al tempo stesso capace di creare dei legami.
Sulla carta si direbbe una situazione lontanissima da quella di Joel e Clémentine, ma la cui matrice in sostanza non è cambiata. «Senza un ricordo che le aiutasse a ritrovare la strada, li avevano perduti», scrive Neri nel suo romanzo visionario, riferendosi a quelli che lui chiama «gli opachi» e che, dopo aver attraversato la fatidica Soglia, non sono sopravvissuti perché hanno smarrito sé stessi.
A renderci umani, sembrano dirci narrazioni come queste, è lo storico di chi abbiamo incontrato, di cosa abbiamo sperimentato, dei sentimenti che ci hanno attraversato. Un registro di nomi e sensazioni che a volte crediamo pesante, inutile, se non addirittura d’intralcio, e che però nessuna tecnologia può allontanare da noi senza rischiare di mettere in discussione chi siamo diventati.
Era una consapevolezza che già nel guardare la pellicola di Michel Gondry avevo iniziato a maturare, ma a cui ora Michele Neri ha dato nuova linfa, con un testo poetico, lucido e rivelatore al tempo stesso. Perché avere memoria vuol dire mantenere una certa presa sulla realtà, ragionare in autonomia e scegliere con cognizione di causa le direzioni da percorrere, senza diventare appunto opachi.
Significa, in altre parole, preservare la lucidità anche di fronte al chiarore accecante di un mattino texano, anche di fronte al dolore, o alla perdita, o alla solitudine. Una capacità che nemmeno la tecnologia più avanzata saprebbe garantirci, e che non a caso – tanto in quel del 2004 quanto fra le pagine di questa novità editoriale – sembra trovare il suo baricentro nella nostra predisposizione ad amare.