Cos’è un intellettuale se non qualcuno dotato di una lungimiranza fuori dal comune? Un profeta dei nostri tempi che anticipa misteriosamente l’avvenire prima ancora che esso manifesti i segni della sua imminenza? Tra gli appartenenti a questa etichetta, una figura sovrana racchiude perfettamente questo insieme di caratteristiche: lo scrittore. Un uomo armato di penna e fantasia, a ben pensarci, somiglia molto ad uno scienziato: studia la realtà con fare pensieroso, ne interpreta legami e meccanismi nascosti, giunge a scoperte inaspettate. E per essere un intellettuale a tutti gli effetti, anzi, lo scrittore deve ispirarsi alla pratica divulgativa della scienza: ciò che viene acquisito non può essere esclusivo possesso del suo scopritore, ma patrimonio di un’intera comunità, che a sua volta si affida alla sensibilità di questi esploratori per avvicinarsi alla verità che cerca. In Sicilia abbiamo avuto un grande scrittore-scienziato: il suo nome era Leonardo Sciascia e il percorso da lui tracciato non accenna a scomparire.

Nel ricordo del recente trentennale della sua morte in quel di Palermo, avvenuta il 20 novembre 1989, oltre che guardare al passato, a ciò che è stato compiuto, dovremmo altresì chiederci: quale strada i siciliani hanno intrapreso verso il futuro? A Sciascia sarebbe piaciuto interrogarsi sul futuro: lo faceva spesso, addirittura lo disegnava mentre gli altri faticavano persino a stare dietro al presente. Per immetterci sulla direzione sciasciana, tuttavia, dobbiamo essere disposti a rinunciare a noi stessi e alle nostre consuetudini: Sciascia accetta soltanto un lettore divergente, decentrato, fuori dal coro. Un lettore che, come l’autore, non si culli di ciò che è acquisito, ma vada alla ricerca di ciò che è dimenticato o ancora ignoto, tuffandosi nel marasma di un mondo che confonde e svia con volontaria malizia. Lo scrittore di Racalmuto non aveva paura di prendere posizione: non la ebbe quando denunciò a più riprese gli illeciti traffici mafiosi; o quando, negli ultimi anni della sua vita, preannunciò la deteriore pratica della “carriera nell’antimafia”; non la ebbe quando smascherò l’ipocrisia dell’agire politico italiano, formalmente diviso tra democristiani e comunisti eppure accomunato da una smodata brama di arricchimento e sopraffazione. Non la ebbe di fronte ai misteri più insolubili o scandalosi, come quelli riguardanti Majorana e Moro. Consapevole che la verità è viscosa come un’anguilla, prismatica come un complesso minerale, chiaroscurale nel suo ondeggiante mostrarsi. Non per questo, tuttavia, egli rinunciò a cercarla, ad invocarla. Parlando decisamente poco, centellinando e soppesando ogni sillaba, rifiutando di esprimersi più di quanto fosse necessario. Non gli importava che i suoi interlocutori, quasi con le pinze, si vedessero costretti a tentare di cavargli più del dovuto: le parole davvero importanti amava scriverle. Il suo operato constò di azioni ancor prima che di pensiero: se non c’era nulla da dire, o da fare, allora subentrava un significativo silenzio.

E così l’eredità di Sciascia si perpetua incorrotta fino ai nostri giorni. In quell’assorto scrutare la realtà, che non presupponeva un attendere passivamente qualche suo segnale ma un ininterrotto pungolare che la squadernasse, risiede l’insegnamento che dobbiamo portarci dietro insieme al disparato carrozzone di commemorazioni. Imparare a gettare lo sguardo giusto su ciò che accade intorno alle nostre vite è il segreto cruciale per il nostro domani. L’analisi del mondo è l’analisi di noi stessi, di ciò che abbiamo contribuito a produrre e di ciò che possiamo positivamente stravolgere. Senza timore di fallimento o di incomprensione. La deriva solitaria dove nessuno ha il coraggio di avventurarsi è un vanto, un distintivo di valore. Parola di Sciascia. Che non fece altro che cercare qualcosa, credere in una verità che ogni giorno si trasforma e interroga il nostro essere uomini. Trent’anni fa come oggi.

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