Il centro storico di Caltabellotta in una annuvolata domenica mattina di settembre intristisce come un acquario vuoto. Il silenzio abbraccia le piazze e le strade. «Caltabellotta non è più Caltabellotta», si rammarica il musicista-scrittore Ezio Noto. Il comune agrigentino da anni registra uno dei più alti tassi di emigrazione in Italia: all’alba degli anni Sessanta contava quasi 7.500 abitanti, poi un calo costante. Fra chi è andato all’estero, chi è in giro per l’Italia per studio o lavoro e chi è sceso sulla costa, a Sciacca, Licata o Ribera, lo scorso 31 dicembre la conta si è fermata a 3.420 residenti.

Appena a venti chilometri dal mare di Sciacca e a sessanta dalla Valle dei Templi, ma la pessima condizione delle strade prolunga i tempi di viaggio e trasforma ogni trasferimento in un’avventura. Così Caltabellotta non rientra nei percorsi turistici. Eppure, è una delle città più antiche della Sicilia. Era la leggendaria Camico, la capitale del regno sicano del re Kòkalos sulle cui rovine sorse la greca Triokala. Che, sotto la dominazione araba, diventerà Qal’at al Balluth, cioè rocca delle querce, perché il territorio era ricco di questi alberi pregiati e longevi. Da qui passarono Sicani, Punici, Elleni, Romani, Ebrei, Arabi, Normanni, Spagnoli ed ai suoi luoghi e personaggi storici rimandano alcune opere come il Parsifal di Wagner, una delle novelle del Decameron di Boccaccio ed anche Goethe ne fa menzione nel suo “Italienische Reise-Sizilien”. Una storia sfiorata dal mito di Dedalo, esaltata dalla dominazione romana, fino a diventare vittima di guerre civili e poi dell’invasione normanna. Ma più che per le ostilità, Cataviddotta si pregia del titolo di “città della pace”, perché proprio qui, sul monte Gulea, meglio conosciuto come il “Pizzo di Caltabellotta”, il 31 agosto dell’anno 1302 si firmò il trattato di pace in virtù del quale Federico III venne riconosciuto Re di Trinacria, con l’impegno a convolare a nozze con Eleonora d’Angiò, sorella di Roberto Re di Napoli, ponendo termine alla guerra del Vespro. Di questo passato prestigioso a Caltabellotta però restano poche tracce. E non solo per le devastazioni prima degli arabi e poi dei normanni, ma per l’incuria dei contemporanei.

È domenica mattina e sembra di essere in un paese fantasma. Non ci sono neanche i vecchi che giocano a carte o chiacchierano leggendo il giornale

A Caltabellotta ci si arriva arrampicandosi lungo una strada tortuosa, attraversando coltivazioni di olivo Biancolilla e aranceti. Ad accoglierti ci sono alcune nicchie, che soltanto in un secondo tempo saprai che si tratta di tombe sicane. Sono svuotate di ogni suppellettile. Come vuote sono moltissime case lungo l’intricato dedalo di strade, saliscendi e scalinate che trasforma il paese in una sorta di labirinto. È domenica mattina e sembra di essere in un paese fantasma. Non ci sono neanche i vecchi che giocano a carte o chiacchierano leggendo il giornale. Pochi bar, qualche auto di contadini che vanno a lavorare in campagna. C’è silenzio, neanche una campana a indicare il giorno del Signore. Il rumore di alcune moto fuoristrada che si divertono a scendere lungo le scale del paese spezza questo spettrale senso di solitudine.

La cattedrale di Caltabellotta

Cartelli con la scritta “vendesi” attaccati sulle case dove si indovinano mobili coperti per non prendere la polvere; sulle saracinesche abbassate dei negozi chiusi; sulle recinzioni di ruderi; su ultimi piani ormai abitati dai piccioni; su balconi pronti a cedere come le rughe dei vecchi. Spesso le abitazioni non sono state finite, il colore è rimasto quello del cemento o dei laterizi forati; su due o tre piani, solo uno è occupato, gli altri sono grezzi e aperti ai venti. Padri e madri li hanno costruiti pensando che i figli sarebbero rimasti in paese, e oggi si trovano con appartamenti che valgono una manciata di pasta. Nelle vicine Cianciana e Siculiana, raccontano, grazie all’iniziativa “una casa a un euro” si è riusciti a ripopolare i centri storici: «Sono venuti acquirenti dagli Stati Uniti, dal Giappone, dalla Germania». Vengono per “staccare” sette mesi dalla vita frenetica dalle metropoli, in cerca dei ritmi lenti e dell’aria pulita di questi comuni lontani dal mondo.

A Caltabellotta no. Nessuna iniziativa. Sfumato anche il progetto di creare un paese-albergo. Delle 42 attività commerciali ne sono rimaste cinque

A Caltabellotta no. Nessuna iniziativa. Sfumato anche il progetto di creare un paese-albergo. Delle 42 attività commerciali che operavano in paese ne sono rimaste cinque. Via Colonnello Vita, la via del “passìo”, è desolatamente deserta. Resiste un tabaccaio, una “acconciatura”, un macellaio. «Qui c’era il bar di lu zzu Pinu», racconta il caltabellottese doc Ezio Noto, passeggiando lunga la strada. Il signor Pellegrino Grisafì sfornava cannoli, ma soprattutto friggeva arancine. «Esclusivamente alla carne e il profumo era un richiamo per tutto il paese, anche perché nel ragù c’era un leggero soffio di peperoni», ricorda con nostalgia Noto, che da assessore, negli anni Novanta, lanciò l’idea della “città presepe”. «Non voleva essere solo un presepe, ma un segnale di “Rinascita”», spiega. Fu un successo. Vennero tantissimi turisti, persino le telecamere della Rai. Poi cambiò l’amministrazione e a Caltabellotta il Bambin Gesù non nacque più.

In piazza Umberto I è sbarrato e abbandonato il cinema Pipìa, dal nome della famiglia proprietaria. Fra i velluti rossi del locale, «negli anni Ottanta ci cantò Rosa Balistreri», ricorda ancora con emozione Ezio Noto. Da trent’anni quel cinema è chiuso. Sulla stessa piazza si apre il Municipio, ingabbiato da impalcature per via dei restauri. Come l’ufficio delle Poste. Gli uffici comunali da tre anni sono trasferiti nei locali della ex scuola Cappuccini; quelli postali in una roulotte. L’unico segnale di vita in piazza Umberto è un bar, bisognoso di una rinfrescata, con un paio di tavolini all’esterno dove si può mangiare una discreta granita al limone “mentre un’altra estate se ne va”. Ma quello era un gelato.

Nelle zone di sosta automobili di lusso tedesche targate Germania, il Paese dove è diretto la maggior parte dell’esodo migratorio agrigentino

Nelle zone di sosta automobili di lusso tedesche targate Germania, il Paese dove è diretto la maggior parte dell’esodo migratorio agrigentino.  Nella lista delle città italiane con più iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani residenti all’estero), la provincia di Agrigento ne conta quattro: Ravanusa, Palma di Montechiaro, Licata e Raffadali. Caso unico in Italia. Barrafranca, Grammichele, Leonforte e San Cataldo completano la classifica contribuendo alla conquista da parte della Sicilia del record per il più alto numero di persone che vivono all’estero: 730mila, il 14,4% dei cinque milioni di residenti nell’isola.

L’eremo di San Pellegrino

Lo spopolamento ha i suoi lati positivi. A Caltabellotta non esiste il problema del distanziamento per gli studenti a causa della pandemia. Lo scorso anno nell’istituto comprensivo Angelo Roncalli nella frazione di Sant’Anna una classe era composta da sei alunni di età diverse. E pensare che questa scuola copre anche Lucca Sicula, Burgio e Villafranca Sicula. «La situazione è terribile», raccontava il preside Vito Ferrantelli sulle pagine locali di Repubblica. «A Caltabellotta, dove fino a pochi anni fa si contavano tre diversi corsi, il prossimo anno ci sarà una classe di appena nove alunni». Uno stillicidio. Ogni anno, nell’Agrigentino, si registra un calo dell’8% delle iscrizioni.

Dieci anni era stata avviata una missione archeologica alla ricerca del favoloso regno di Kòkalos, ma non si è visto mai un Indiana Jones con zappetta e pennello per cominciare gli scavi

Dieci anni fa sulla collina di contrada San Benedetto, vicino al centro storico di Caltabellotta, era stata avviata una missione archeologica alla ricerca del favoloso regno di Kòkalos. Si delimitò l’area con paletti e filo spinato, ma non si è visto mai un Indiana Jones con zappetta e pennello per cominciare gli scavi. In un momento in cui si assiste alla riscoperta dei borghi, Caltabellotta sembra voler perdere anche l’ultimo treno. L’eremo di San Pellegrino con la storia dell’uccisione del drago mangia-bambini da parte del santo, così come la suggestiva Cattedrale di fine secolo XI e la chiesetta che ricorda il centenario della rivolta degli schiavi di Triokala, la Caltabellotta greca, si lasciano avvolgere e accarezzare dalla “Paisana”, la gelida nebbia che scende tutte le sere d’inverno sul paese.

Ma c’è chi scommette sul paesino agrigentino. Come Giuseppe Augello, 36 anni, ma ne dimostra molti di meno. Con il padre alcuni anni fa allestì un ristorante in un vecchio opificio, il M. A. T. E. S., ovvero Museo delle antiche tradizioni enogastronomiche siciliane. «Andò bene e con i guadagni cominciammo a ingrandire il piccolo appezzamento di terreno della famiglia coltivato a ulivi», racconta. Dalla produzione di un profumato olio biologico (“Giudecca” a memoria del quartiere ebreo di Caltabellotta, dove ancora sorge una sinagoga) si è adesso passati alla scommessa del pistacchio: trecento piante importate dall’Iran per lanciare la sfida a Raffadali e Bronte, le due capitali dell’oro verde. «Qui si può fare molto», sostiene Augello. «Il problema è che c’è ancora la fissazione del posto sicuro. I ragazzi vanno a studiare a Palermo, pista di decollo per Torino e Milano, dove andare a insegnare. Ma anche qui c’è la possibilità di realizzarsi. È più faticoso, ma non impossibile».

Augello pensa positivo. Tant’è che ha aperto anche un bed&breakfast, convinto di un futuro turistico di Caltabellotta. La stessa convinzione che ha Ezio Noto, le cui battaglie contro i mulini a vento stanno cominciando a dare i primi frutti. Il musicista-scrittore è riuscito ad accendere tra i pizzi dolomitici che sovrastano il paese – Gulea, Castelvecchio e Castello, Gogàla, Argione e Quagliari, che compongono tutti insieme il monte di Caltabellotta, chiamato genericamente Kratas – un faro culturale che attira decine di studiosi e turisti da tredici anni. È il Dedalo Festival, convivio di arti, musiche e letture, che ha per protagonisti creativi d’ogni parte dell’Isola, talvolta a confronto con realtà culturali di altri territori.

Tuttavia tamponare l’emorragia è possibile. Qualcosa di simile è avvenuto in Portogallo e in Spagna: le regioni più deboli non hanno superato quelle più forti, ma i divari si sono ridotti

Dopo aver vissuto e insegnato per quasi cinquant’anni a Palermo, l’ex pastore oggi scultore Salvatore Rizzuti è tornato nel paese natìo per aprire un laboratorio. Oltre una trentina delle sue opere occupano il piano nobile del Museo civico, sostituendo i reperti che raccontano la storia di Caltabellotta ospitati ad Agrigento. La speranza è quella di dar inizio a un rinascimento di Caltabellotta, ma c’è poca fiducia nella classe politica.

Tuttavia tamponare l’emorragia è possibile. Qualcosa di simile è avvenuto in Portogallo e in Spagna: le regioni più deboli non hanno superato quelle più forti, ma i divari si sono ridotti. «La distinzione da porre non è fra meridionali e settentrionali ma fra quanti, dentro il Mezzogiorno, hanno goduto di rendite e privilegi e quanti invece si sono ritrovati vittime, spinti a emigrare o costretti ad adattarsi», scrive l’economista Emanuele Felice. Quello che ha fatto la differenza in altri Paesi sono stati governi nazionali e locali in grado di gestire ritardi e storture. «Il buon governo e le buone istituzioni hanno un ruolo importante nella ricchezza e povertà delle nazioni», scrive il biologo e fisiologo statunitense Jared Diamond. E osservando l’Italia dal pizzo di Caltabellotta, dove lo sguardo riesce a spaziare dall’Etna a Lampedusa, vedendo nei suoi numeri e nelle sue storie i numeri e le storie della nazione, è difficile dargli torto.

Il nostro impegno è offrire contenuti autorevoli e privi di pubblicità invasiva. Sei un lettore abituale del Sicilian Post? Sostienilo!

Print Friendly, PDF & Email