Il libro che conferma come, per scrivere di Parigi, non se ne debba scrivere
In un opuscolo che ho letto di recente, firmato Julien Green e tradotto da Marina Karam per Adelphi, si legge che Parigi (città che dà anche il nome al volume) rappresenta ai suoi occhi un «romanzo mai scritto». Mi era sembrata una frase evocativa e malinconica al tempo stesso, ma forse troppo estrema, troppo severa, se pensiamo a quante storie siano in realtà ambientate nella capitale francese.
Eppure, se ci pensiamo, è vero che gran parte dei libri scritti su Parigi sono incompleti, manchevoli, zoppicanti. Perché cercano di catturare un’essenza che continua a sfuggire, o perché rimangono concentrati su una superficie – su un’apparenza, su una patina scintillante – che con la vera Parigi, quella dei bassifondi e delle banlieue, quella dei quartieri a luci rosse e degli scontri sociali, forse non ha poi molto in comune.
Di Parigi, insomma, è stato scritto tutto senza che fosse stato detto quasi niente, quantomeno niente di trascendentale, niente di straordinario, niente di così potente. Ed ecco perché, forse, la chiave sta nel rintracciare Parigi non nei testi che gridano di lei o che la mettono in primo piano, nel bene o nel male che sia, quanto piuttosto in quelle storie in cui Parigi ci arriva realmente come un romanzo ancora mai scritto.
Vi sembrerà assurdo, ma è un esperimento che vale la pena di fare sulla propria pelle. E, se siete in cerca del libro giusto con cui provarci, non abbiate timore: questo mese è uscito in libreria Il venditore di incipit per romanzi di Matéï Visniec, tradotto da Mauro Barindi per Voland, e vi basterà leggerne le prime righe per capire che è questa l’opera che stavate cercando.
Il motivo è presto detto: l’azione sembra svolgersi a Parigi e la città sembra essere perciò sotto un costante riflettore, ma la verità è che ci troviamo di fronte a un romanzo surreale, sopra le righe, in cui (come suggerisce il titolo) il focus sta non per niente nel venditore di incipit che avrebbe già aiutato tanti grandi nomi della letteratura. E come potrebbe, un testo dedicato a trame da ultimare, incontri al Caffè dei Timidi e personaggi che non sai mai se siano reali, a parlare davvero di Parigi?
Per l’appunto: Visniec non lo fa. È Parigi a infilarsi tra le pagine, a fare da sfondo animato, a tirare la testa fuori dall’acqua nei momenti meno prevedibili, come una bizzarra creatura che faccia capolino tra le onde, senza mai svelarsi, senza mai scoprirsi, e che però al tempo stesso sorveglia ciò che accade, lo permea di sé, lo rende a suo modo possibile.
Parigi, ne Il venditore di incipit per romanzi, è un motore immobile aristotelico, che non spinge la trama in avanti ma che genera movimento, prestandosi alla dimensione del tempo e dello spazio con una disinvoltura incantevole, quasi invisibile, che oltre a ricordarci il talento innato dell’autore rumeno ci permette di capire fino in fondo cosa volesse dire Julien Green.
Perché il libro parla (anche) di altro – anzi, di tutt’altro –, anche se come qualunque storia fantastica che si rispetti non merita di essere svelata e messa a nudo prima che venga gustata dai suoi lettori. Parla di altro, dicevamo, ma il bello è proprio questo: che nel farlo parla anche e specialmente di una Parigi inedita, che non avevamo mai visto né sentito prima, e che solo qui ci appare meravigliosamente accessibile, conturbante, calorosa.
Ci sono tanti modi in cui Visniec può segnare la mente di chi si avvicina alla sua scrittura. Trovare ciò che non si stava cercando – e che forse, quasi quasi, l’autore non era neanche certo di aver mostrato – è tutt’altro che il solo, ma senza dubbio rimane fra i più ammirevoli, fra i più affascinanti, fra quelli per i quali arrivare all’ultimo dei suoi capitoli con il fiato sospeso può meritare sul serio la pena.