Qualche mese fa, mentre ero ospite di un importante evento letterario, ho ritrovato una vecchia conoscenza: un membro della giuria che aveva selezionato e poi premiato un mio racconto nel 2015 e con la quale sono poi rimasta in contatto a distanza tramite Facebook. Non ci siamo mai sentite in privato, limitandoci a scambiarci qualche like e commento con affetto, ma lei si ricordava di me, mi ha riconosciuta, ha voluto parlarmi.

«Apprezzo il tuo modo di stare in rete – mi ha detto – perché non hai l’impulso di seguire ogni volta l’ultimo trend. E magari dopo tante settimane di silenzio scrivi un contenuto solo perché hai un’opinione davvero tua da condividere. Mi piace come approccio, ti rende una persona trasversale che non associo a questa o a quella tematica, ma a una maniera più ampia di stare al mondo».

Una riflessione che ha continuato a ronzarmi in testa da allora, e che in più occasioni ho provato a capire se potevo applicare ad altre figure attorno a me. Perché se ci pensate, complice anche la società fatta di tag e di brevi stringhe in cui viviamo, è sempre più raro non associare una persona a un solo comportamento, a una sola caratteristica, a un solo tema.

E in effetti ho notato, ora che ho iniziato a farci caso più del solito, quanto sia facile anche per me identificarmi – o identificare chi mi circonda – con un elemento unico, che rendo poi la chiave di lettura e di interpretazione di un intero modo di essere. Ecco perché, nel tentativo di affrancarmi il più possibile da questa forma mentis, nei giorni scorsi sono rimasta folgorata da una raccolta di racconti quasi tutti inediti firmati Arthur Conan Doyle e appena portati in Italia da Clichy, nella traduzione di Elisa Frassinelli.

L’ultima legione e altri racconti di tanto tempo fa, si intitola il volume, e ci propone tredici storie di lunghezza variabile, in cui «il creatore di Sherlock Holmes», come legittimamente lo definisce la casa editrice, unisce la sua immaginazione ad ambientazioni storiche ben precise, mescolando la fantascienza al realismo, l’avventura alla denuncia sociale.

Certo, lo fa secondo il suo stile, il suo linguaggio sempre elegante e umoristico, la sua abilità descrittiva e i suoi colpi di scena, ma uscendo al tempo stesso dagli schemi del giallo classico per il quale viene celebrato dalla critica. In altre parole, qui Conan Doyle non è più Conan Doyle, o quantomeno non è lo scrittore che credevamo di conoscere, e non si riduce alla sua – seppur fortunata e brillante – invenzione di Sherlock Holmes.

Dedicarmi alla lettura dei suoi racconti è stato come rendermi conto che una vecchia compagna del liceo non era solo “quella che studiava danza”, o che il mio vicino di casa non è solo “quello che ama gli animali domestici”: mi ha dimostrato che Conan Doyle non è solo “quello che è passato alla storia per i suoi polizieschi deduttivi”, ma un intellettuale dall’estro ben più sfaccettato, dai contorni più sfumati, con una propensione per il sovrannaturale che non per niente lo ha reso uno dei primi pilastri del genere fantastico, anche se non tutti lo sanno o se ne ricordano.

Mi ha proiettato in epoche in cui, in compagnia di questo autore, non avrei mai creduto di inoltrarmi – dall’antica Roma all’invasione degli Unni, per poi riportarmi nel presente con un desiderio più vivo di andare al di là di ciò che credevo di sapere già, e la consapevolezza del fatto che aveva ragione Eric Allenbaugh, quando nel 1992 scriveva in Wake-up Calls: «Continuare ad aggrapparsi ai modelli conosciuti inibisce la nostra capacità di scoprire ciò che non conosciamo».

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