In questi mesi mia madre, un’insegnante di storia e filosofia nei licei, sta tenendo un corso di educazione civica incentrato sulla lotta alle mafie e – fra gli altri – sulla figura di Peppino Impastato. Me ne ha parlato qualche giorno fa al telefono, confidandomi che ha riscoperto molti tratti del suo carattere leggendo e guardando documentari su di lui in vista delle lezioni.

«Doveva essere una persona incredibile – mi ha raccontato con fervore – piena di ironia e di idee originali. Ho rivisto I cento passi in classe dopo tanti anni e alcune scene mi hanno messo i brividi… Che uomo, che storia, che film».

In Sicilia, in effetti, Peppino Impastato è ormai una leggenda. Un punto di riferimento, un modello incrollabile e soprattutto inimitabile, che nella sua unicità è riuscito a fare breccia in modi e in luoghi che prima di lui sarebbe stato impensabile sottrarre alla mafia, e che anche dopo la sua tragica scomparsa sono profondamente cambiati.

È a questo che ho pensato nell’avvicinarmi a Peppino Impastato. La memoria difficile, un volume curato da Pino Manzella ed edito di recente da Guerini e Associati, in cui pensavo di ritrovare le tracce di un pilastro della mia terra per come già avevo imparato a conoscerlo, ad apprezzarlo, a ricordarlo.

Invece, fin dalla prefazione, il lavoro dell’artista e studioso palermitano mi ha sorpresa: nessun mito su Peppino Impastato, nessun elemento celebre da riconfermare. Il suo intento, al contrario, è quello di capire se la narrazione a cui ci siamo abituati sulla sua figura non sia stata per caso un po’ romanzata, con qualche alterazione in buona fede qua e là.

A quanto pare, ci spiega l’autore, «questo fenomeno si verifica con maggiore probabilità quando un ricordo viene raccontato più volte e il ricordo ricostruito spesso sembra tanto reale quanto quello recuperato», senza che a volte però ci sia una perfetta sovrapposizione dei due, per via del fatto che la memoria e le percezioni umane possono rivelarsi fallaci anche quando non ce ne rendiamo conto.

Ecco perché queste testimonianze sono importanti, continua Manzella: «Ci consegnano un ritratto di Peppino dalle diverse sfaccettature ma lontano dallo stereotipo dell’eroe che in questi anni gli è stato cucito addosso. E il fatto che molti ricordi coincidano nella memoria dei compagni e degli amici ci dà la consapevolezza di essere molto vicini al vero Peppino».

Una considerazione che mi ha fatto tornare in mente mia madre, il film che ha visto con i suoi studenti e soprattutto Luigi Pirandello. Chissà cosa ne avrebbe pensato, infatti, lo scrittore agrigentino Premio Nobel per la Letteratura nel 1934, della possibilità di conoscere il Peppino vero, quello che possiamo ricostruire grazie alle testimonianze di chi l’ha conosciuto e frequentato.

Forse avrebbe commentato che così è, ma solo se ci pare, anche se probabilmente spulciando con attenzione il testo messo a punto da Manzella, con le sue ricostruzioni così puntuali, le foto, i documenti d’archivio e decine di ricordi di prima mano, si sarebbe dovuto ricredere – almeno stavolta.

Perché il Peppino che emerge da queste pagine ha in effetti una coerenza e una concretezza senza pari, il fascino e l’umanità di un sognatore dalla verve polemica ma umile, che vive per la politica e per la satira, per la gentilezza e per la cooperazione, e che pur restando un prisma dalle sfaccettature complesse ci viene qui restituito senza orpelli e senza aggiunte, nella bellezza struggente della sua autenticità.

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