Qualche anno fa ho scoperto il magnifico mondo delle box letterarie. Non so nemmeno più in che modo, forse grazie a una sponsorizzata. Sta di fatto che ne scovo una spedita dalla Francia, con libri e gadget tutti in francese, così provo a espandere la ricerca alle altre lingue che conosco e ne trovo anche una spagnola, da cui mi faccio mandare diverse scatole a sorpresa. 

Con la Francia mi è andata bene, con la Spagna un po’ meno. Ho ricevuto quasi solo romanzi lontani dalla mia sensibilità, diversi dai miei gusti. Romanzi che non ho nemmeno finito, nonostante la mia speranza di praticare un po’ le lingue mentre mi immergevo in storie esotiche.

Poi accade che risento una mia prof di letteratura spagnola della triennale con cui sono in contatto. Così, per altri motivi. E lei mi chiede il mio indirizzo per spedirmi un regalo. Arriva in un giorno in cui non aspetto pacchi, e vedo che è un libro di cui mi aveva parlato, Cu-cú, cantaba la rana (Punto Rojo Libros) di Agustín Cortés Pérez. Risalgo le rampe di scale e delle generazioni che ci separano e già spulcio le prime pagine pensando: «E se fosse una delusione anche questa?».

Non lo è stata. Neanche per poche righe. Quella del protagonista, un ragazzino diverso per eccellenza, è un’esistenza bloccata sulla riva di uno stagno, tra aspettative rurali e leggi binarie: la racconta lui stesso in prima persona, osservando i suoi legami in controluce e vedendo angosce saltellanti come le rane, case sull’orlo di un incendio, matrimoni da celebrare in una sera, in cambio di un uccellino.

Sono arrivata all’epilogo in una notte, la stessa in cui ho scritto alla prof per dirle a caldo cosa ne avessi pensato. Il mio messaggio è arrivato fino in Spagna, all’autore, e i suoi ringraziamenti hanno rifatto il giro del Mediterraneo così, come se fosse una cosa scontata scambiarsi storie, opinioni, parole.

In realtà non lo è, proprio come non lo era una frase che mi era rimasta impressa durante la lettura, e che avevo indirettamente menzionato alla prof al momento di scriverle. Lei, per tutta risposta, mi ha detto: «Noto che hai colto la citazione di Lorca».

Per la verità non sapevo neppure se fosse un’invenzione dell’autore o un passo tratto davvero da un altro libro. Però la curiosità mi aveva portata su Google a digitare «Vendrán las iguanas vivas a morder a los hombres que no sueñan». Verranno le iguane vive a mordere gli uomini che non sognano. García Lorca, per l’appunto.

Forse significa che dovremmo fabbricarci sempre, un po’ ovunque, anche noi, una vita con meno catene, come il personaggio principale che per sopravvivere sa di aver bisogno di materiali cartacei, di vergogne a forma di porta da attraversare, di ossa da riparare nonostante certi telegrammi.

O forse no, e la risposta dovrei cercarla più a fondo e più a lungo in altri romanzi, in una nuova box letteraria, in un altro esperimento fuori programma pronto a ricordarmi fino a che punto, come scriveva una volta Montale, un imprevisto rimanga la sola speranza.

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