L’anno in cui un mio racconto è stato selezionato per la prima volta al Premio Campiello Giovani e io ero pronta a salire sul palco del Teatro Nuovo di Verona per presentare me stessa e la mia storia, il mio primo pensiero – figlio dell’ansia e dell’inesperienza – è stato: «Ma chi me l’ha fatto fare?». E il secondo: «Fa’ che finisca presto».

Poi è partita la musica, sono scoppiati gli applausi, è iniziato un percorso che non si è concluso né con l’esclusione successiva da quell’edizione del concorso né dalla vittoria due anni dopo del primo premio, perché una volta che hai davvero partecipato a un evento del genere, che hai acquisito familiarità e che hai imparato ad amarlo e a temerlo, resti fra i suoi meccanismi per sempre.

Tant’è che a oggi con il Campiello collaboro su più versanti, entusiasta e speranzosa che non finisca più, e che intanto sono stata nella giuria e fra i partecipanti di tanti altri contest letterari. Eppure, da allora ho anche cominciato a pormi domande scomode, a guardare a certe realtà – culturali e non – con un certo scetticismo, con una certa curiosità, con tanti dilemmi.

Al di là della netiquette sull’abbigliamento, dei rinfreschi, dei discorsi formali, delle polemiche, delle rinunce e perfino degli inciuci, mi chiedo per esempio tante volte, il macrocosmo dei premi a cosa si ridurrebbe?

O ancora: se togliamo la sfida della gara, lo sprone a metterci in gioco, le emozioni contrastanti che proviamo nel sapere il nome del vincitore o nel partecipare dall’interno alla giuria di selezione, cosa resta di un concorso fatto di formalità, etichette, uffici stampa, sponsor e visibilità?

Ebbene: a queste domande in parte provocatorie, in parte retoriche e in parte sinceramente difficili da ignorare, mi hanno risposto adesso 23 scrittori e scrittrici, che hanno affrontato l’argomento in modo spassoso, irresistibile e brillante nel volume Tutti i nostri premi edito da Racconti Edizioni e a cura di Emiliano Ceresi, Giacomo Ferrara e Mattia Fiorillo, ovvero una raccolta di storie brevi dal taglio sempre fresco, insospettabile e irriverente, che mi hanno fatto esclamare: «Era ora!».

Era ora che qualcuno li dissacrasse, li riverisse, li usasse come spunto critico per fare letteratura, questi sacrosanti concorsi. Perché il problema con i premi è che di solito tutti puntano ad arrivarci, ma molti meno a capirli profondamente. A raccontarli, a servirsene come spunto, a trasformarli in qualcos’altro.

Il che, se ci pensiamo, è un po’ paradossale, perché la letteratura è per sua stessa definizione un atto di trasfigurazione, che se parte dall’idea di raccontare un premio – qualunque premio, in qualunque ambito – finisce nel mettere dentro al frullatore, come sempre, ben più della mera competizione e vittoria.

Finisce per parlare di relazioni, per evocare paure, per sviscerare doppi fini. Finisce per farci sorridere della nostra ipocrisia, delle nostre priorità sballate, perfino della nostra ingenuità. E ci conquista, proprio come fa Tutti i nostri premi, perché nel mettere a nudo le contraddizioni dei premi ci svela a noi stessi più umani e più vinti di quanto pensassimo.

Ecco perché un’operazione editoriale (ma specialmente culturale) come Tutti i nostri premi meriterebbe non solo un plauso per la sua lucidità, ironia e profondità, ma al tempo stesso un altro premio a sua volta, che se non può essere uno del calibro del Campiello o dello Strega (anche se mai dire mai), sarà quantomeno quello dell’originalità.

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