Attraverso delle pagine altamente autobiografiche la giovane scrittrice catanese riesce a squadernare il dramma e le difficoltà di una giovane come tante, costretta a venire a patti con il fallimento del suo tentativo di farsi una vita fuori dalla propria città natale

Dora ha trent’anni, è originaria di Catania ed è alle prese con una condizione tutt’altro che stabile. Pur di seguire la sua vocazione, infatti, è andata incontro ad anni di precariato, meccanismi di corruzione e favoritismi professionali che l’hanno portata a ritornare da Roma nella sua città natale con una profonda frustrazione e con la sensazione che un futuro labirintico e soffocante la aspetti. Potrebbe essere la storia di una qualunque laureata, e in effetti in qualche modo lo è: attraverso la protagonista di un romanzo di finzione, infatti, Maristella Bonomo racconta in realtà una vicenda autobiografica e più che realistica per chiunque faccia i conti oggi con la ricerca di un lavoro stabile nel nostro Paese, e in particolare nel sud Italia.

L’opera in questione è Navel, uscita nel 2019 per Gilgamesh Edizioni, e si basa su un personaggio femminile determinato e fiero, che ha alle spalle una solida formazione accademica e una storia d’amore appena naufragata, con un uomo più grande che era riuscito a trasformare la propria passione in una fonte di guadagno certa. Dovere fronteggiare la rottura sentimentale contemporaneamente alle pressioni familiari che riceve per essere rincasata mette a dura prova il suo spirito di adattamento, minato peraltro da un’emicrania a grappolo e da una forte intolleranza alle ingiustizie, che non la rendono di certo la stagista sottopagata e sfruttabile desiderata da un Mister X qualunque.

La sua ricerca di un riscatto sociale e personale si rivela dunque una sfida complessa, che la costringe a rimettere in discussione la propria personalità e i rapporti con chi la circonda, in una dimensione collettiva che lascia poco spazio alla valorizzazione del talento – o del Navel, come per l’appunto definisce lei il “piccolo ombelico” che rappresenta la sua vocazione esistenziale. In una sorta di lungo discorso con sé stessa, narrato in prima persona e costantemente in bilico fra sogno e veglia, invenzione e realtà, Dora analizza con un’amara ironia e con profondo coraggio le delusioni a cui va incontro, le aspettative mancate che la aspettano, la sfilza innumerevole di trafile burocratiche a cui si deve sottoporre pur di inoltrare l’ennesima candidatura, partecipare a un bando o presentarsi a un colloquio infruttuoso.

Il romanzo dà quindi voce al grido di aiuto di un’intera generazione di donne brillanti, capaci di andare al di là delle polemiche giornaliere e dei clientelismi contemporanei per affermare i propri sogni, senza tuttavia riuscire a trovare facilmente un baricentro solido. Per la protagonista, per esempio, la svolta è costituita in un primo momento da un inaspettato incontro con una sorta di sua sosia, in un secondo momento da una presa di coscienza che riesca a conciliare il suo senso di giustizia con la sua predisposizione alla poesia della vita, alla sua dimensione più sacra. Naturalmente, non si tratta di una risposta certa e definitiva alle problematiche della postmodernità, né il cammino percorso da Dora si snoda in una direzione esente da difficoltà, eppure la denuncia sociale sulla quale è imperniato il testo si risolve infine in una prospettiva di riscatto personale che assume quasi i toni di un augurio.

«Anche se non so cosa mi aspetta, se mi sembra spesso di precipitare nel vuoto, di una cosa posso essere sicura: io non voglio soccombere. E, l’incoraggiamento a manifestarsi, mi sembra magnifico. Ricominciare dal presente, da questo momento» scrive la Bonomo, con lo stile schietto ed evocativo che la contraddistingue. E insieme a lei sembra di sentire parlare non solo il suo alter-ego letterario, ma anche qualsiasi altra donna pronta a mettersi in gioco per sopravvivere a questi nostri, complicatissimi tempi.

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