Ancora oggi me lo chiedo spesso, com’è che ho conosciuto i libri di Amélie Nothomb. Ma la verità è che, per quanto mi sforzi, continuo ad avere un vuoto. Un giorno era una scrittrice belga sconosciuta, il giorno dopo uno dei miei punti di riferimento della letteratura contemporanea. E anche se non saprei dire quando l’ho letta per la prima volta, e dove, e perché, quantomeno ho un ricordo nitido della prima volta in cui l’ho letta in lingua originale.

Avevo vent’anni ed ero appena atterrata a Parigi per iniziare uno scambio Erasmus semestrale. Non avrei vissuto lì, dovevo solo arrivare alla Gare de Lyon e prendere un treno per la Franche-Comté. Solo che ero in anticipo di tre ore, sola con tanti bagagli, e in stazione mi stavo annoiando. Così sono entrata in una libreria, ho dato un’occhiata in giro e ho trovato il suo nuovo romanzo. Si intitolava Barbablù, come quel cattivo delle fiabe.

L’ho letto un po’ al binario, un po’ sul treno. L’ho finito senza accorgermi che stavo già arrivando a destinazione, e che mezza Francia mi era passata accanto attraverso il finestrino. C’eravamo solo io, lei e le ossessioni dei suoi personaggi. Ancora una volta, Amélie Nothomb mi aveva stregata.

Sono passati otto anni, da allora, e intanto in Italia è arrivato il suo ultimo testo, Il libro delle sorelle, tradotto da Federica Di Lella per Voland. Questo qui l’ho letto su una sedia, ferma al mio posto, ma per certi versi è stato come se il mondo mi fosse passato di nuovo davanti agli occhi in tutta la sua interezza, e in tutto il suo impercettibile orrore.

D’altronde, lo so bene perché continuo a leggere Amélie Nothomb, pur non sapendo più perché avevo cominciato a farlo. E il motivo è presto detto: prende una storia, lei, o un personaggio, o un’idea, e in un centinaio di pagine te ne mostra la magia e lo strazio. Le contraddizioni, le paure, le violenze. E specialmente l’incanto.

Parti sempre con la sensazione di trovarti davanti a una trama qualsiasi. A una vicenda contemporanea, ma che non ha chissà quale retroscena. A una protagonista un po’ scialba, come accade nel caso specifico di Tristane, la bambina intelligente di cui i genitori non si curano perché troppo accecati dal loro idillio amoroso.

Poi, però, Tristane cresce. Soffre, capisce, impara. Ascolta le maldicenze degli altri, interiorizza i comportamenti disfunzionali della sua famiglia, e reagisce al disamore prendendosi cura della sorella minore, Laetitia, che come un giorno le profetizza il suo psicologo è destinata a essere fra le due la sorella maggiore.

Perché Laetitia è sempre stata amata, e si sente in diritto di brillare, di concretizzare il suo amore per il rock, di rimproverare i genitori per le loro ingiustizie. Tristane, invece, resta triste dentro, un po’ come vuole il suo nome parlante – elemento imprescindibile nei romanzi di Nothomb, che guarda caso chiama la sorella minore come la gioia di stare al mondo.

E capisci che, inevitabilmente, hai a che fare con l’ennesima storia di Amélie Nothomb in cui l’epilogo è una stilettata di cui non si possono dare anticipazioni, per non guastare lo stupore (e l’angoscia) della sorpresa. Anche se dell’effetto che sortisce ancora una volta la penna dell’autrice, di quello sì, possiamo aggiungere due parole.

«La vita oscilla / tra il sublime e l’immondo / con qualche propensione / per il secondo», scriveva Eugenio Montale. E a modo suo ce ne dà prova anche Nothomb, o ce lo fa capire, o ci permette di toccarlo con mano attraverso la scrittura. Con la conseguenza che – davvero – sarebbe impossibile restarle indifferenti.

Sarebbe impossibile non provare l’istinto di saltare sul primo treno in corsa, raggiungere altre città e viaggiare insieme a lei. Verso dove non ci è dato scoprirlo, prima di arrivare all’ultimo rigo del romanzo. Ma è certo che ne varrà la pena, e che alla fine lascerà tanti segni dentro di noi quanti saranno quelli della matita con cui avremo sottolineato, come in trance, tutti i capitoli del libro.

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