Il Sud convive meglio con il Covid?
Che la qualità complessiva della vita in molte regioni del Sud Italia, inclusa la Sicilia, fosse migliore di quella di altre località, è fatto noto, tanto da far sopportare, a chi risiede in queste regioni, quei pochi (o molti) aspetti della vita quotidiana che proprio di alta qualità non sono. Il clima, il cibo, l’inquinamento medio dell’aria, le bellezze naturali e artistiche, la qualità dei rapporti umani e sociali, sono tutti fattori che talvolta sono riusciti a riconciliarci con la mancanza di lavoro dei giovani, con l’inefficienza dei nostri servizi pubblici – e spesso anche di quelli privati – o con alcune storture del sistema di rapporti economici. Ma che alcuni dei fattori positivi potessero avere un impatto rilevante anche sulla diffusione del Covid e sulla valutazione dei rischi connessi, è certamente cosa interessante da considerare.
È uno studio pubblicato pochi giorni addietro ad opera di un gruppo di ricercatori prevalentemente afferenti all’Ateneo di Catania a prospettarci questa possibilità. L’articolo, uscito su una prestigiosa rivista del gruppo Nature, riporta i risultati di un’analisi mirata a stabilire i potenziali rischi epidemici di una specifica area geografica, e dunque a identificare a priori possibili aree con elevate condizioni di rischio all’interno di un Paese. L’indice di rischio è stato valutato per tutte le regioni italiane in base alla pericolosità di una possibile infezione, all’esposizione dell’area geografica e alla vulnerabilità della popolazione, usando una serie di fattori, sette per l’esattezza in questo studio, che in parte possono essere ricollegati ad una complessiva qualità della vita.
Quali sono i fattori in questione, rispetto ai quali il Sud Italia (e in parte anche il Centro-Sud) sembra fare la differenza? L’inquinamento dell’aria, la mobilità delle persone, la temperatura durante la stagione invernale, la concentrazione delle abitazioni, la densità dell’assistenza sanitaria, e infine la numerosità e l’età media della popolazione. Fattori che nello studio possono essere definiti in modo quantitativo: a titolo di esempio l’inquinamento dell’aria è valutato in base alla media annuale della concentrazione giornaliera di polveri sottili PM10, un parametro che in Lombardia risulta essere di 29.5 mg/m3, mentre in Sicilia di 21.7 mg/m3. O ancora, la concentrazione delle abitazioni, definita come il rapporto tra il numero di abitazioni “non indipendenti” e quelle totali, un parametro che va dal 79% per le Marche al 96% per la Lombardia.
Un’analisi statistica dettagliata di questi parametri, anche attraverso un esame delle serie storiche di valori nel corso del tempo, ha consentito di valutare i fattori di rischio a priori di ogni regione geografica italiana e le possibili correlazioni con la diffusione del virus, così come è stata osservata nel corso del 2020. Il risultato è che il rischio epidemico, valutato proprio in base ai valori che assumono questi fattori nelle diverse regioni italiane, non è uniforme, e presenta una distribuzione con un massimo nelle regioni del Nord, valori intermedi nel Centro Sud e valori ancora minori al Sud. Questo rende plausibile il perché alcune regioni italiane, come Lombardia, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna abbiano sofferto più di altre in termini di numero di contagi, ricoveri in terapia intensiva e numero di decessi.
Il modello messo a punto in questo studio sembra peraltro interpretare anche la diffusione delle “normali” influenze stagionali, e potrebbe indicare una strada a lungo termine per la prevenzione della diffusione di certe epidemie. Un contributo, in buona parte catanese, all’analisi di questi problemi, che deriva dalla familiarità con cui fisici, matematici, ingegneri, trattano statisticamente anche dati di tipo interdisciplinare.
In tempi di South Working o di rivalorizzazione degli atenei del Sud, qualcuno, forse non a torto, potrebbe anche iniziare a chiedersi se non sia opportuno mettere in conto anche questi fattori nel valutare alcune delle scelte strategiche che determinano la vita personale, familiare e sociale di una popolazione, compresi i ben noti flussi migratori, che i siciliani conoscono da tempo, per lo studio o per la ricerca del lavoro.
Giuseppe
4 anni agoA conferma della tesi dei ricercatori catanesi, c’è lo studio sulla popolazione anziana del Cilento, la terra della dieta mediterranea. Così è riportato in un articolo pubblicato sul quotidiano Il Mattino:
—Resistono al Covid e se contraggono il virus si ammalano in modo meno grave. Il primato spetta ad alcuni centenari ed over cinquanta cilentani e conferma il Cilento terra della lunga vita e del buon vivere. La scoperta riguarda il gruppo di cilentani che è sotto osservazione da diversi anni grazie al progetto Ciao (Cilento on aging outocomes study) coordinato dal professore Salvatore Di Somma dell’Università La Sapienza di Roma e realizzato in collaborazione con le Università di San Diego e di Malmoe. Per alcuni centenari e per un migliaio di persone tra i 50 e i 65 anni, tutti residenti nel Cilento, lo studio ha già evidenziato la presenza di particolari metaboliti secondari che sembrerebbero proteggerli dalle malattie cardiovascolari e neurovegetative e sarebbero alla base del loro invecchiamento in buona salute. Adesso è stato fatto un passo in avanti: questo gruppo di cilentani ha resistito anche al Covid probabilmente grazie allo scudo della vitamina D. «La vitamina D riesce a dare una riposta immunitaria molto favorevole per cui diversi studi hanno evidenziato che chi ha una carenza di questa vitamina ha un rischio maggiore di sviluppare una forma più grave di Covid spiega il professore Salvatore Di Somma, docente alla Sapienza Avevamo già osservato che i cilentani presi in esame dal progetto Ciao presentavano una elevata presenza di vitamina D circolante, per cui siamo andati a riprendere quei dati, mediante un follow up a due anni di distanza, per verificare le conseguenze del Covid sul loro organismo. Il risultato è molto interessante. Abbiamo riscontrato che nessuno dei centenari inclusi nello studio è morto per il Covid e che nel gruppo dei mille cilentani tra i 50 e i 65 anni, quei pochi che hanno contratto il virus si sono ammalati in forma non grave. Si tratta di uno studio ancora in una fase iniziale, non ancora oggetto di una pubblicazione scientifica, manca la comparazione con la popolazione svedese come invece è stato fatto per altre malattie grazie alla collaborazione con l’Università di Malmoe. In ogni caso è un primo risultato che ci conferma, ancora una volta, la correlazione tra Covid e vitamina D».
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