Imparare ad abitare il fascino della lontananza

Ho sempre pensato al legame con la propria terra come a un’idea problematica. A un sentimento che non capisco se viene instillato da secoli di nazionalismo, proprietà privata e vita sedentaria, o se invece cresce e si fortifica man mano che creiamo una nostra identità individuale e collettiva. Probabilmente le due facce di questa medaglia stanno lì insieme, a guardarsi negli occhi, e la gente poi fa testa o croce nel tentativo di capirci qualcosa e di continuare a vivere rispondendosi o con l’opzione A o con l’opzione B.

Per me invece è più difficile, chiamo “casa” qualunque stanza d’albergo in cui soggiorno almeno per una notte, e nessun appartamento nello specifico. Sto bene quando supero lo Stretto di Messina e pure quando torno ad attraversarlo al contrario. E se resto per un paio d’ore in una città comincio a sentire delle strade tutte mie, a fabbricare ricordi e a scrivere storie su certi incontri surreali fatti qua e là. Proprio per questo, quando leggo, ho spesso voglia di confrontarmi con narrazioni di patrie complicate, di posti a cui si è legati in modo viscerale, di persone che devono spostarsi anche e soprattutto quando non è la loro volontà a spingerli lontano. 

Ho sempre qualcosa da imparare dalle loro scelte, dalla loro nostalgia, dai loro problemi: cerco dei termini di paragone che non esistono, costruisco nuovi punti di riferimento, vedo ponti e parchi con occhi sempre nuovi. E riempio i miei quaderni di definizioni fluide, di ingiustizie, di maniere in cui si riesce a ritornare o a non andarsene nonostante la geopolitica imponga concretamente il contrario. 

Tante righe sorprendenti le ho buttate giù leggendo Lejos. Sedici racconti dal Perù, che in Italia ha portato la casa editrice Gran Vía: si tratta di un volume a cura di Maria Cristina Secci, il cui filo conduttore è proprio la lontananza – da una lingua, da una strada, da una stanza. Sedici scrittori peruviani che parlano di sedici distacchi, declinando sedici variazioni di mescolanze, di sofferenze, di rinascita. Le ho spulciate mentre attraversavo per l’ennesima volta lo Stretto di Messina, chiedendomi se il concetto stesso di “migrazione” avesse senso di esistere così, da solo, senza esempi tutti diversi ad accompagnarlo, e rispondendomi che ognuno di quei racconti era una diversa e toccante possibilità di risposta. 

Sono stata in cucine straniere, dentro stazioni e camere da letto, ho visto panorami assurdi e ascoltato i pensieri più contorti, mentre un’immagine sempre più complessa del Perù veniva fuori dalle pagine e si depositava sulle mie dita. Ho scoperto parole che non conoscevo, percorso sentieri bui e altri pieni di gente, e storia dopo storia ho fatto amicizia con scrittori di cui non avevo mai sentito parlare. Quando ho finito, li ho ringraziati per i loro personaggi. Come se mi avessero svelato un segreto, o aiutato a illuminare meglio un mistero fittissimo. 

Nonostante le loro contraddizioni, i figli che non avranno mai o i padri di cui hanno perso le tracce, nonostante i loro sorrisi amari e le speranze che hanno visto sfiorire, nonostante i loro vicoli ciechi, i loro amori finiti, le loro notti insonni, c’è infatti qualcosa che non hanno mai perso di vista. Un appuntamento ideale che mi ha ricordato i versi di Jalaluddin Rumi: «Ben oltre le idee / di giusto e di sbagliato / c’è un campo. // Ti aspetterò laggiù». 

Ed eccolo lì, il senso di una patria. Chiarito in poche righe o nella varietà di idee di sedici scrittori peruviani. Forse non è un luogo connotato, definito da etichette e da frontiere culturali – no, forse non è altro che un “oltre”, un terreno piano in cui si può restare in attesa senza temere niente. Uno in cui ci si può sedere, rotolare, o addormentare senza fare incubi. Un campo che esiste solo finché non ci sono dicotomie, aspettative, limiti. Uno spazio aperto, insomma, e se possibile accogliente. Che ci manca proprio perché ha tutto da dare e niente da prendersi, a dispetto di quello che ci vorrebbero far credere.
Un posto così, mi ha insegnato Lejos, lo conosco anch’io. Mi è caro e familiare, pur avendo cambiato nome varie volte nel corso del tempo. Se ascoltate bene, o se vi capiterà di leggere queste stesse storie brevi, di sicuro lo troverete all’istante anche voi.

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Traduttrice di formazione, nonché editor, correttrice di bozze e ghostwriter, Eva Luna Mascolino (Catania, 28 anni) ha vinto il Campiello Giovani 2015 con il racconto "Je suis Charlie" (edito da Divergenze), tiene da anni corsi di scrittura, lingue e traduzione, e collabora con concorsi, festival e riviste. Ha conseguito il master in editoria di Fondazione Mondadori, AIE e la Statale di Milano, e ora è redattrice culturale - oltre che per Sicilian Post - per le testate ilLibraio.it e Harper’s Bazaar Italia. Lettrice editoriale per Salani, Garzanti e Mondadori, nella litweb ha pubblicato inoltre più di 50 racconti.

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